Il libro “Il giornale degli anni memorabili” edito da Cino
del Duca Editore nel 1960 raccoglie le
lettere scritte da Costanza d'Azeglio (n.1793 +1862 – moglie di Roberto
d'Azeglio, fratello maggiore del più noto Massimo) al figlio Emanuele poi
divenuto ambasciatore del Regno Sardo a Pietroburgo, Londra ed altre capitali
europee, dal 1835 alla morte.
Esse costituiscono la cronaca di molti avvenimenti accaduti
nel periodo (siamo in pieno Risorgimento e molti sono i riferimenti a
personaggi illustri come Cavour, Garibaldi, Carlo Alberto, Vittorio Emanuele,
Napoleone III, Massimo d’Azeglio, ed in
particolare Silvio Pellico che incontra sovente ) emergenti con
particolari poco o per nulla noti.
Fra questi molti episodi relativi all’epidemia di colera che
nel 1835 colpì il Piemonte, ed in particolare Torino - ove la Costanza risiede
- provocando migliaia di vittime.
L’autrice nella corrispondenza con il figlio elogia
anzitutto il comportamento esemplare di suo padre, Roberto, medico, che si prodiga senza
risparmio per la cura dei malati, occupandosi anche di fornir loro i
conforti religiosi, senza preoccuparsi del pericolo sempre incombente del
contagio, provvedendo addirittura, in un caso, a trarre egli stesso dal letto tre
cadaveri che gli infermieri si rifiutavano di toccare,
riuscendo con il suo esempio a convincerli a riprendere il loro servizio. Ed
anche, rifiuta di trasferirsi nell’ospedale a pagamento restando al lazzaretto
“perché non vuole abbandonare i più
sventurati”.
Descrive quanto si fa per arginare il flagello, i lazzaretti
miserabili (ma c’erano, anche allora!, gli ospedali per paganti) , e con
particolari spesso orripilanti, le
condizioni, l’aspetto dei malati,
e le cure empiriche loro applicate come l’ Anticolera - ma non si capisce di
cosa si trattasse - poi la magnesia, lavaggi
d’acqua calda e giallo d’uovo, l’acqua
di camomilla (nel colera di Parigi, ricorda, “fu distribuita a fiumi”) e quella
di riso
Ma, soprattutto, il terrore del contagio che si diffonde
fra gli infermieri che talora si
rifiutano di assistere i malati. A Cuneo, addirittura, ad un certo punto non se
ne trovarono più e allora il Vescovo
ricorre ad un tentativo dettato dalla disperazione: trasformare le prostitute
in infermiere.
Il tentativo ha pieno successo e, scrive la Costanza, “le
prostitute si sono dimostrate le
infermiere più attente e più devote. Non è mai stato possibile rimproverarle”,
concludendo che, evidentemente, per la salute delle loro anime il buon Dio
ricava profitto anche dal colera.
Da parte sua, per risolvere la crisi, il marito di Costanza,
a Torino, si rivolge ad una certa
Commissione Superiore per ottenere l’autorizzazione ad impiegare come
infermiere le suore le quali “pareva che non aspettassero altro che l’onore di
prodigarsi”. Ma siccome la Commissione tira in lungo, la stessa Costanza rompe
gli indugi e porta nel lazzaretto due
suore “che hanno subito cominciato la loro opera passando la notte a vegliare i
malati e guadagnandosi l’ammirazione di tutti…Una certa suora Angelica può
dirsi l’Angelo tutelare dei malati…e si sacrifica senza stanchezza”.
Ma tanta buona volontà ed abnegazione trovano un grave
ostacolo nell’ignoranza e dalle dicerie del popolino che invitano i malati a non ricoverarsi nel lazzaretto ove
verrebbero uccisi con il veleno. Addirittura, le malelingue parlano di premi
che verrebbero erogati agli avvelenatori: “il marchese di Rorà avrebbe
dato seimila franchi per ottenere
uno stermino di poveri; il marchese di Barolo pagherebbe venti franchi ai medici per ogni
malato che riescono a uccidere” e, addirittura, il Re ne pagherebbe, a tale
titolo, ben duecento!
Non mancano, fra tante brutture (addirittura, “un uomo colpito dal colera è
stato gettato nella calce ardente prima ancora che fosse spirato”), casi strani
disinvoltamente riferiti dalla nobildonna al figlio, che francamente muovono il
riso.
Come “la cuoca di casa Baldissè” che, ai primi sintomi del
male, si rifiuta di essere curata dai
padroni per la paura di essere avvelenata,
e si fa assistere dai fratelli “che sono poi rimasti padroni di tutta la
casa” poiché i Baldissè “pensarono bene di andarsene addirittura” : ma la cuoca
ci lascerà egualmente la pelle.
Viene poi citato il caso di “un giovinastro che restò
colpito nella casa della sua donna” la quale invece di chiedere soccorso corre
a comperare una bottiglia di “vermuth” del quale “il suo giovanotto ne
trangugiò qualche bicchiere. E’ morto la mattina”.
Peggio capitò ad un altro giovane che, rientrato a casa la
sera, aveva invano bussato affinchè gli aprissero e poi, spazientito, si era
diretto all’altro portone vicino al suo che era quello di una casa di piacere
che non ebbe difficoltà ad accoglierlo. Ma, scrive la Costanza, “si era appena
disteso sul letto con due di quelle
donne da strapazzo, che” gli venne male e rimase come fulminato. Il colera lo aveva
abbattuto…Le donne si dettero da fare, una a gridare aiuto, l’altra a pregare.
Ma il giovanotto era intanto spirato”. E male ne incolse anche ad un certo
marchese B. di Savignano il quale “dopo non so quale orgia, ha preso il colera
ed è morto”.
Mentre la paura del colera spinse un certo “bandito di
Caramagna sul quale pendeva una grossa taglia, a farsi portare da due persone
della banda e da una ragazza nel lazzaretto di Torino ove morì”. Ma male andò anche
ai suoi accompagnatori che, arrestati, dopo gli accertamenti per stabilire
che non fossero pur essi malati, vennero mandati in prigione.
Naturalmente, la paura del morbo riattizza sentimenti
dimenticati:”…Ho visto nella chiesa dello Spirito Santo il Cristo miracoloso
che vi hanno esposto. Molta gente accorre a pregarlo. Piovono le offerte. Il
Cristo ne è tutto ricoperto. E penso che ci si comporta un po’ meglio da
qualche tempo”.
Peccato che per ottenere ciò occorra proprio un’epidemia di
colera.
Padova 11.05.2016
Giovanni Zannini
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