Fu proprio quello l’inconsueto itinerario seguito da coloro che ebbero l’ingrato compito di custodire Benito Mussolini dopo che il re, a Villa Savoia, l’aveva destituito nel pomeriggio del 25 luglio 1943, lo stesso giorno in cui, alle tre del mattino, si era conclusa l’ultima seduta del Gran Consiglio del Fascismo con l’ordine del giorno Grandi che ne decretò la fine.
Un vagare affannoso e non programmato alla ricerca di un luogo sicuro in cui depositare l’ingombrante fardello, sotto l’incubo di possibili colpi di mano sia da parte degli inglesi che di Hitler il quale già dal 26 luglio aveva messo in moto, per la liberazione del duce, una “task force” affidata al colonnello Otto Skorzeny.
Si comincia con il trasferimento, la sera del 27 luglio, da Roma a Gaeta ove alle prime luci dell’alba del giorno successivo Mussolini viene imbarcato sulla corvetta “Persefone” che fa rotta per l’isola di Ventotene. Quivi giunti, dopo una rapida ispezione, si constata che non è possibile sistemarvi il prigioniero, e, sui due piedi, si decide di dirigere su Ponza ove la nave giunge nel pomeriggio dello stesso giorno.
Ivi l’ex duce viene sistemato alla meglio in una catapecchia, ed il 7 agosto scatta l’allarme.
Scrive:”…Stanotte, verso l’una sono stato svegliato con le seguenti parole:”Pericolo in vista! Dobbiamo partire”. Mi sono vestito in tutta fretta, ho raccolto i miei oggetti e le mie carte e mi sono recato su di un incrociatore che mi attendeva…”.
Un primo tentativo di Skorzeny?
La nave sulla quale il prigioniero viene imbarcato in tutta fretta è, più precisamente, il caccia F.R.22 (l’ex “Pantera” francese, preda di guerra) che lo trasferisce nell’isola della Maddalena ove resterà fino al mattino del 28 agosto quando, sentendo sulla nuca, i custodi del duce, il fiato dei segugi scatenati alla sua caccia, Mussolini viene ancora una volta precipitosamente imbarcato su di un idrovolante della Croce Rossa che ammarra all’idroscalo di Vigna di Valle sul lago di Bracciano.
Effettivamente, l’implacabile Skorzeny era già sulla Maddalena e solo l’improvviso decollo del velivolo gli aveva sottratto la preda.
Da Vigna di Valle il prigioniero viene trasferito, ancora una volta a bordo di un’autoambulanza, ad Assergi donde in data incerta, probabilmente il 31 agosto, viene condotto per funivia all’albergo rifugio di Campo Imperatore ove Skorzeny il 12 settembre riesce a portare a termine, rocambolescamente, la missione affidatagli dal suo Fuhrer.
Fin qui l’itinerario percorso in 50 giorni dal duce, un calvario che suscita in lui meditazioni che la gloria terrena aveva per troppo tempo sopite, raccolte in due quaderni che egli chiamerà “Pensieri pontini e sardi”.
Di essi lo stesso Mussolini aveva perso le tracce: nel suo libro “Il tempo del bastone e della carota”, infatti, ricordando il suo travagliato trasferimento da Roma al Gran Sasso, afferma (parlando, come noto, in terza persona), che “…Fu concesso a Mussolini di scrivere. Pare abbia fatto delle notazioni quotidiane di carattere filosofico, letterario, politico, ma questa specie di diario non lo si è più trovato…”.
Appare dunque necessario un chiarimento.
Dalla “Nota informativa” che apre il suddetto libro di Mussolini si apprende che i due quaderni manoscritti finirono nelle mani del “liberatore” Skorzeny il quale si affrettò ad inviarli al capo delle SS. Himmler. Questi, dopo averli tradotti e fotografati, li consegnò in originale allo stesso Hitler il quale li restituì a Skorzeny, e questi al Duce: ma poi, se ne sono perse le tracce.
E allora, da dove spuntano?
Pochi giorni prima della capitolazione della Germania giunse all’ufficio militare tedesco di Kreismunster, presso Linz, l’ordine di distruggere tutti i documenti ivi esistenti. In quella occasione cadde sotto gli occhi dell’ufficiale tedesco addetto una copia della traduzione del primo quaderno dei “Pensieri Pontini e Sardi” quello che va, come già detto, dal 2 al 19 agosto 1943.
Resosi conto dell’importanza del documento (e, forse, della possibilità di farci qualche marco……) l’ufficiale lo salvò dalle fiamme e successivamente lo consegnò al giornale austriaco “Salzburger Nachrichten” che, controllatane l’autenticità, lo pubblicò a puntate, ripreso poi dalla stampa italiana .
Ora i “Pensieri pontini e sardi” figurano nell’”Opera Omnia” di Mussolini” edita, a cura di Duilio ed Edoardo Susmel, dalla casa editrice “La Fenice” di Firenze nel 1963.
Il secondo quaderno è invece allo stato attuale, e salvo altre sorprese, scomparso.
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Ma torniamo al testo.
Ne emergono lo scoramento, la rassegnazione, i “mea culpa”, il desiderio di conforto religioso, ed i sintomi della caduta.
“Fin dall’ottobre 1942 – vi si legge - ho avuto un presentimento continuamente crescente della crisi che mi avrebbe travolto. La mia malattia vi ha molto contribuito”.
Il tema della malattia (ulcera duodenale con ripetute crisi) ritorna:”E’ strano che negli ultimi tempi il lavoro nella grande sala di Palazzo Venezia mi era venuto a noia. Avevo già deciso di trasferirmi al Ministero della Marina o in un altro posto della periferia più concentrato di palazzo Venezia di fronte all’altare della Patria. Un sintomo della mia malattia”.
Ed a proposito della costruzione di un rifugio antiaereo sotto Villa Torlonia scrive:”…la mia ripulsione verso il rifugio antiaereo crebbe a causa di un oscuro presentimento… Avevo l’esatta sensazione che questo rifugio sarebbe stato completamente inutile, che non ce ne saremmo mai serviti. Infatti! Si deve ascoltare la voce del subcosciente”.
A Ponza legge il libro “Vita di Cristo” (del canonico lateranense Giuseppe Ricciotti) la cui lettura aveva iniziato, si noti, già prima del 25 luglio e che la moglie Rachele, trovatolo aperto sul suo tavolo, gli aveva fatto pervenire assieme ad altre poche robe.
“”Due libri mi hanno molto interessato in questi ultimi tempi: “La vita di Gesù” di G.Ricciotti e “Giacomo Leopardi” di Saponaro. Anche Leopardi è stato un po’ crocifisso!””.
Chiede di vedere il parroco ma gli è impedito, ed allora gli scrive pregandolo di celebrare una messa in suffragio del figlio Bruno nel secondo anniversario della morte donandogli, in segno di gratitudine, la “Vita di Cristo” che il sacerdote trova annotato e sottolineato in più punti. Una frase, in particolare:”E Gesù uscì solo, non gli era d’appresso neppure un amico”.
Il sacerdote risponde assicurando che celebrerà la Messa nella speranza che anche lui possa parteciparvi, ma il trasferimento alla Maddalena lo impedirà.
Quivi giunto annota:”” Oggi 17 agosto è venuto da me, su mia richiesta, il parroco della Maddalena, don Capula. L’ho intrattenuto brevemente sulle mie faccende e gli ho detto che le sue visite mi avrebbero aiutato a vincere la grave crisi morale provocata dall’isolamento più che da tutto il resto. E il sacerdote:”…Lei non è stato sempre grande nella fortuna: sia grande ora nella disgrazia. E’ da questa che il mondo la giudicherà, da quello che lei sarà a partire da ora e molto meno da quello che lei è stato fino a ieri. Dio, che vede tutto, la osserva e sono sicuro che lei non farà nulla che possa ferire i principi religiosi cattolici, dei quali lei si ricorda, anche se dovessero prodursi nuovi colpi del destino”. Gliel’ho promesso””.
Ripensando poi a Palazzo Venezia, a Villa Torlonia, alla Rocca delle Caminate, commenta:”…Io ho abbandonato tutto ciò da vivo. Eppure è come se fossi morto…”.
In un colloquio con l’Ammiraglio Maugeri sulla corvetta Persefone che lo conduce a Ponza, insiste:”…Io sono politicamente defunto…”.
Ed a chi gli chiede un autografo si firma “Mussolini defunto”.
Il 19 agosto annota: “…la mia settimana di passione cominciò precisamente un mese fa con il mio incontro col Fuhrer a Feltre” e confessa: la previsione che “la Germania ci piantava in asso, e che dopo la conquista della Sicilia gli inglesi sarebbero arrivati…fino a Roma…accrebbe la tensione nervosa già prossima al collasso”.
E poi: “….Questa sarebbe dunque la mia posizione giuridica: ex capo del governo in stato di arresto protettivo contro la furia popolare!”.
Quindi un rimpianto:””Nella mia vita non ho mai avuto nessun amico, ma è meglio così perché in tal modo molta gente è esentata dal “compatirmi”, cioè dal “patire con me””; ed un pentimento:”…Povera Rachele! Quanta poca gioia le ho dato e quanti dolori. Durante trent’anni non una sola settimana di calma. Meritava forse un destino diverso e migliore che essere legata alla mia vita tempestosa”.
A proposito di donne scrive: ””….le donne non hanno mai esercitato la sia pur minima influenza sulla mia politica. Forse è stato uno svantaggio. Talvolta, grazie alla loro fine sensibilità, le donne sono più lungimiranti degli uomini””.
Infine:“ La massa è stata pronta, in tutte le epoche ad abbattere gli idoli di ieri anche a costo di pentirsene domani.. Ma nel mio caso non sarà così. Il sangue, l’infallibile voce del sangue mi dice che la mia stella è tramontata per sempre”.
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Tre giorni dopo la liberazione avvenuta a Campo Imperatore il 12 settembre 1943, Mussolini fonda, il 15 dello stesso mese, il Partito Fascista Repubblicano ordinando di “appoggiare efficacemente e cameratescamente l’Esercito germanico che si batte sul territorio italiano contro il comune nemico” e l’1 dicembre dello stesso anno proclama la nascita della RSI, la “Repubblica Sociale Italiana”.
Giovanni Zannini
Questo Blog raccoglie molti miei scritti alcuni dei quali pubblicati su giornali e riviste. Non sono uno storico ma è mio desiderio informare su fatti ed episodi poco noti che spesso non sono conosciuti dai più. Oltre a ciò il Blog contiene mie considerazioni e commenti su argomenti vari nonché racconti e novelle frutto della mia attività letteraria.
Giovanni Zannini-Pubblicista-via Ferri 6-35126-Padova-Tel.+FAX 049/757890 g.zannini_@libero.it
sabato 17 marzo 2012
LEONE FORTIS, IL "DOCTOR VERITAS" PADOVANO
“Ma chi sarà mai”” si chiedevano i lettori dell’”Illustrazione Italiana” che nel periodo dal 1875 al 1890 scorrevano la “Conversazione” che, mensilmente, un tal misterioso “Doctor Veritas” teneva con un’altrettanto misteriosa signora affermatamente giovane e bella?
Sotto quello pseudonimo si celava Leone Fortis, nato a Trieste il 5 ottobre 1827 da Davide Forti (il cui cognome modificò poi in Fortis) e da Elena Wollemborg che, rimasta prematuramente vedova, si trasferì a Padova col bambino che educò nell’ambiente culturale padovano dell’epoca frequentato da poeti come Dall’Ongaro, Aleardi, Fusinato e Prati riuniti attorno al Pedrocchi: per questo, benché non padovano per nascita, ma per formazione, venne poi sempre considerato come frutto della cultura padovana .
Iscritto inizialmente alla facoltà di medicina del Bo, si dedicò poi alla drammaturgia che, oltre ad attribuirgli un certo successo, lo segnalò anche come patriota malvisto dalle autorità austriache per riferimenti alla libertà ed all’indipendenza italiana che gli costarono ripetuti allontanamenti dalla città, ed anche per qualche tempo l’esilio in Svizzera.
Fu attivo nelle battaglie risorgimentali: nel 48 accorse, da Trieste, ove gli austriaci l’avevano costretto, a Padova ove si arruolò volontario prendendo parte alla battaglia di Monte Osio (Verona), poi fu a Milano, ed infine a Roma ove nel 1849 combattè alla difesa della Repubblica Romana.
Terminata l’esperienza di patriota combattente, tornato a Padova nel 1850 riprese la sua attività di drammaturgo che, nonostante la modestia dei risultati, gli aprì le porte d’ importanti teatri quali la “Compagnia Reale” di Torino che nel 1952 lo assunse come “poeta della Compagnia con obbligo di tre lavori ogni anno” e poi, a Milano, quelle della Scala, che nel 1854 lo nominò “Direttore artistico e poeta ufficiale”. Ma dopo tale data , convinto che l’ attività di drammaturgo fosse destinata ad esaurirsi con gli anni giovanili, decise di indirizzare le sue innegabili doti letterarie verso il giornalismo continuando ad esprimere, per questa via, patriottismo e sete di libertà.
Oltre che per le sue qualità professionali caratterizzate da uno stile sbrigliato, libero ed anticonformista, e da una cultura assai vasta che gli consentiva di trattare gli argomenti più vari, si distinse quale creatore di giornali che, con un dinamismo eccezionale, seminò in tutte le regioni d’Italia che il processo riunificatore risorgimentale andava via via aggregando.
Il successo e la fama di giornalista gli derivò (grazie anche alla qualità di collaboratori quali l’Aleardi, il Nievo - che però lo criticò tacciandolo di taccagneria nei compensi - il Fusinato e l’Arrighi) da “Il Pungolo” che, fondato a Milano e chiuso a forza dagli austriaci, riprese le pubblicazioni a Milano nel 1859 allorchè la Lombardia era entrata a far parte del regno sabaudo.
Dopo un anno il giornale giunse a tirare fino a 10.000 copie, ma il Fortis aveva nel frattempo mutato indirizzo politico ripiegando dalle giovanili posizioni liberal-progressiste e mazziniane, verso un conservatorismo monarchico filo-governativo favorito anche (si disse) dalla necessità di ottenere aiuti e sovvenzioni per ovviare ad affari andati male ed alla non sempre felice gestione del giornale che dopo alterne vicende chiuse definitivamente il 10 settembre 1892.
Allora, a corto di quattrini, fu ben felice di prendere al volo la proposta dell’Editore E.Treves che gli offrì sulla sua “Illustrazione Italiana” una rubrica di politica, cultura e costume simile a quella che già da tempo il Fortis conduceva, e con successo, sul suo giornale cosicchè, dal 1875 al 1890, comparve ogni mese sull’ importante rivista dell’epoca una “Conversazione” a firma “Doctor Veritas”.
Si trattava di intere colonne, fitte, che talora occupavano anche più pagine ove egli commentava gli avvenimenti politici, culturali e mondani del mese con uno stile colloquiale vivace ed intrigante, talora aulico, che all’epoca, evidentemente, piaceva assai ed attirava lettori, donde la scelta, come sempre oculata, dell’editore Treves.
Da esse emergeva un Fortis politicamente conservatore favorevole alla monarchia a suo parere solo argine contro pericolose derive della società verso il socialismo e l’anarchia, e che, culturalmente, manifestava la sua simpatia per gli autori rimasti fedeli al romanticismo criticando ogni forma di sperimentalismo e di letteratura derivante da modelli stranieri.
Ma il maggior interesse per il lettore odierno è fornito dalla cronaca di fatti ed avvenimenti della fine 800 che appaiono quasi perfettamente sovrapponibili, oltre un secolo dopo, a quelli d’oggidì.
Nella “Conversazione” del 27 maggio 1877 rimpiange (già allora…) i bei tempi passati rievocando “la politica di una volta…, la buona politica!”, quando “c’eran due nomi che ci facevano battere il cuore, Venezia e Roma,...quando avevamo un mito vivente, Garibaldi, e una figura storica contemporanea, Vittorio Emanuele, l’uno era qualcosa più di un eroe, l’altro assai più di un re…”. Oggi, invece, (“Conversazione” del 8 aprile 1877) ”i deputati entrano a Monte Citorio (come allora si indicava Montecitorio – ndr.)…parlando quella specie di linguaggio che i candidati sogliono adoperare con i loro elettori, tutto tropi, immagini, metafore, e ne escono parlando un gergo fabbricato in casa… che nessun altro che loro riesce a capire…Occupati a fare e disfare gruppi, gruppetti, gruppini, combinazioni e combinazioncelle, composizioni e decomposizioni di chimica parlamentare…credono che tutta l’Italia non si occupi d’altro e non si accorgono che al di là della muraglia di Monte Citorio l’Italia lavora, pensa, studia, si diverte, si muove e, soprattutto, cammina”.
Nella “Conversazione” del 25 marzo 1877 critica i criteri per l’attribuzione delle cariche pubbliche prendendo ad esempio quanto avveniva alla Scala il cui ambiente, abbiamo visto, conosceva assai bene.
Fra i suoi direttori, scrive, “ce n’è qualcuno a cui tutti riconoscono nessuna autorità né competenza in fatto d’arte, e che pure sta là imperterrito da tanti anni per diritto dinastico. C’è stato il padre, ci deve essere il figlio, e se questo figlio avrà prole, il bimbo nascituro la prima parola che pronuncerà invece di “papà”, sarà “Scala”…”.
Quella dell’ 11 marzo 1877 è tutta dedicata ai critici letterari, fra i quali si annovera, che non esita a criticare aspramente iniziando col dire che “…Lo scrivere è il miglior modo per disimparare a leggere”. Già, perché “…noi, trascinati dal vortice della vita di tutti i giorni, noi i libri dobbiamo accontentarci di prenderli in mano, di guardarli, per fondere, per così dire, nel nostro pensiero, il titolo, il nome dell’autore e quello dell’editore traendo da questi tre dati l’oroscopo della loro vita, della loro morte, della loro fortuna, come fanno gli zingari con le mani dei credenzoni. Sicuro, noi critici, più o meno patentati, non si ha più il tempo di fare la critica letteraria, dobbiamo contentarci di fare della chiromanzia bibliografica”. E allora ben venga – si augura - una malattia la cui convalescenza consenta al critico di esaminare dal suo letto o dalla poltrona quelle pagine che altrimenti rimarrebbero intonse.
E poi (2 aprile 1877) la Borsa il cui termometro “ va soggetto ad agitazioni convulse e repentine. La colonna del suo mercurio sale e scende con una rapidità piena d’orgasmo. Ogni sua vibrazione comunica una scossa a quei capannelli che sulla piazza della Scala stanno accampati…Ognuno fa la pace e la guerra dieci volte al giorno, tira oroscopi, fa profezie, combina alleanze, scioglie questo Stato o quello…”. Più attuale di così!
Infine (24 gennaio 1877), alcuni giudiziosi consigli a quelle dame che si dolevano perché i giovin signori del tempo manifestavano maggior attenzione a “quelle altre” piuttosto che a loro. Per recuperare l’interesse degli uomini, raccomandava alle dame suddette: “Si guardino bene dal porsi al livello di quelle là, evitino gli scoppii di voce, la garrulità fatua, la irrequietezza del gesto, la mobilità provocante, gli ondeggiamenti voluttuosi della persona”, e vedranno che “la gioventù non è sì floscia e scaduta che la mia bella lettrice (l’ immaginaria signora “giovane e bella” alla quale si rivolge nelle sue “Conversazioni – ndr.) non trovi sempre un braccio di giovane che sia superbo di farla ballare, di accompagnarla alla sua carrozza, un’anima di giovane che si apra, compiacendosene, al placido raggio del suo spirito…”.
Giovanni Zannini
Sotto quello pseudonimo si celava Leone Fortis, nato a Trieste il 5 ottobre 1827 da Davide Forti (il cui cognome modificò poi in Fortis) e da Elena Wollemborg che, rimasta prematuramente vedova, si trasferì a Padova col bambino che educò nell’ambiente culturale padovano dell’epoca frequentato da poeti come Dall’Ongaro, Aleardi, Fusinato e Prati riuniti attorno al Pedrocchi: per questo, benché non padovano per nascita, ma per formazione, venne poi sempre considerato come frutto della cultura padovana .
Iscritto inizialmente alla facoltà di medicina del Bo, si dedicò poi alla drammaturgia che, oltre ad attribuirgli un certo successo, lo segnalò anche come patriota malvisto dalle autorità austriache per riferimenti alla libertà ed all’indipendenza italiana che gli costarono ripetuti allontanamenti dalla città, ed anche per qualche tempo l’esilio in Svizzera.
Fu attivo nelle battaglie risorgimentali: nel 48 accorse, da Trieste, ove gli austriaci l’avevano costretto, a Padova ove si arruolò volontario prendendo parte alla battaglia di Monte Osio (Verona), poi fu a Milano, ed infine a Roma ove nel 1849 combattè alla difesa della Repubblica Romana.
Terminata l’esperienza di patriota combattente, tornato a Padova nel 1850 riprese la sua attività di drammaturgo che, nonostante la modestia dei risultati, gli aprì le porte d’ importanti teatri quali la “Compagnia Reale” di Torino che nel 1952 lo assunse come “poeta della Compagnia con obbligo di tre lavori ogni anno” e poi, a Milano, quelle della Scala, che nel 1854 lo nominò “Direttore artistico e poeta ufficiale”. Ma dopo tale data , convinto che l’ attività di drammaturgo fosse destinata ad esaurirsi con gli anni giovanili, decise di indirizzare le sue innegabili doti letterarie verso il giornalismo continuando ad esprimere, per questa via, patriottismo e sete di libertà.
Oltre che per le sue qualità professionali caratterizzate da uno stile sbrigliato, libero ed anticonformista, e da una cultura assai vasta che gli consentiva di trattare gli argomenti più vari, si distinse quale creatore di giornali che, con un dinamismo eccezionale, seminò in tutte le regioni d’Italia che il processo riunificatore risorgimentale andava via via aggregando.
Il successo e la fama di giornalista gli derivò (grazie anche alla qualità di collaboratori quali l’Aleardi, il Nievo - che però lo criticò tacciandolo di taccagneria nei compensi - il Fusinato e l’Arrighi) da “Il Pungolo” che, fondato a Milano e chiuso a forza dagli austriaci, riprese le pubblicazioni a Milano nel 1859 allorchè la Lombardia era entrata a far parte del regno sabaudo.
Dopo un anno il giornale giunse a tirare fino a 10.000 copie, ma il Fortis aveva nel frattempo mutato indirizzo politico ripiegando dalle giovanili posizioni liberal-progressiste e mazziniane, verso un conservatorismo monarchico filo-governativo favorito anche (si disse) dalla necessità di ottenere aiuti e sovvenzioni per ovviare ad affari andati male ed alla non sempre felice gestione del giornale che dopo alterne vicende chiuse definitivamente il 10 settembre 1892.
Allora, a corto di quattrini, fu ben felice di prendere al volo la proposta dell’Editore E.Treves che gli offrì sulla sua “Illustrazione Italiana” una rubrica di politica, cultura e costume simile a quella che già da tempo il Fortis conduceva, e con successo, sul suo giornale cosicchè, dal 1875 al 1890, comparve ogni mese sull’ importante rivista dell’epoca una “Conversazione” a firma “Doctor Veritas”.
Si trattava di intere colonne, fitte, che talora occupavano anche più pagine ove egli commentava gli avvenimenti politici, culturali e mondani del mese con uno stile colloquiale vivace ed intrigante, talora aulico, che all’epoca, evidentemente, piaceva assai ed attirava lettori, donde la scelta, come sempre oculata, dell’editore Treves.
Da esse emergeva un Fortis politicamente conservatore favorevole alla monarchia a suo parere solo argine contro pericolose derive della società verso il socialismo e l’anarchia, e che, culturalmente, manifestava la sua simpatia per gli autori rimasti fedeli al romanticismo criticando ogni forma di sperimentalismo e di letteratura derivante da modelli stranieri.
Ma il maggior interesse per il lettore odierno è fornito dalla cronaca di fatti ed avvenimenti della fine 800 che appaiono quasi perfettamente sovrapponibili, oltre un secolo dopo, a quelli d’oggidì.
Nella “Conversazione” del 27 maggio 1877 rimpiange (già allora…) i bei tempi passati rievocando “la politica di una volta…, la buona politica!”, quando “c’eran due nomi che ci facevano battere il cuore, Venezia e Roma,...quando avevamo un mito vivente, Garibaldi, e una figura storica contemporanea, Vittorio Emanuele, l’uno era qualcosa più di un eroe, l’altro assai più di un re…”. Oggi, invece, (“Conversazione” del 8 aprile 1877) ”i deputati entrano a Monte Citorio (come allora si indicava Montecitorio – ndr.)…parlando quella specie di linguaggio che i candidati sogliono adoperare con i loro elettori, tutto tropi, immagini, metafore, e ne escono parlando un gergo fabbricato in casa… che nessun altro che loro riesce a capire…Occupati a fare e disfare gruppi, gruppetti, gruppini, combinazioni e combinazioncelle, composizioni e decomposizioni di chimica parlamentare…credono che tutta l’Italia non si occupi d’altro e non si accorgono che al di là della muraglia di Monte Citorio l’Italia lavora, pensa, studia, si diverte, si muove e, soprattutto, cammina”.
Nella “Conversazione” del 25 marzo 1877 critica i criteri per l’attribuzione delle cariche pubbliche prendendo ad esempio quanto avveniva alla Scala il cui ambiente, abbiamo visto, conosceva assai bene.
Fra i suoi direttori, scrive, “ce n’è qualcuno a cui tutti riconoscono nessuna autorità né competenza in fatto d’arte, e che pure sta là imperterrito da tanti anni per diritto dinastico. C’è stato il padre, ci deve essere il figlio, e se questo figlio avrà prole, il bimbo nascituro la prima parola che pronuncerà invece di “papà”, sarà “Scala”…”.
Quella dell’ 11 marzo 1877 è tutta dedicata ai critici letterari, fra i quali si annovera, che non esita a criticare aspramente iniziando col dire che “…Lo scrivere è il miglior modo per disimparare a leggere”. Già, perché “…noi, trascinati dal vortice della vita di tutti i giorni, noi i libri dobbiamo accontentarci di prenderli in mano, di guardarli, per fondere, per così dire, nel nostro pensiero, il titolo, il nome dell’autore e quello dell’editore traendo da questi tre dati l’oroscopo della loro vita, della loro morte, della loro fortuna, come fanno gli zingari con le mani dei credenzoni. Sicuro, noi critici, più o meno patentati, non si ha più il tempo di fare la critica letteraria, dobbiamo contentarci di fare della chiromanzia bibliografica”. E allora ben venga – si augura - una malattia la cui convalescenza consenta al critico di esaminare dal suo letto o dalla poltrona quelle pagine che altrimenti rimarrebbero intonse.
E poi (2 aprile 1877) la Borsa il cui termometro “ va soggetto ad agitazioni convulse e repentine. La colonna del suo mercurio sale e scende con una rapidità piena d’orgasmo. Ogni sua vibrazione comunica una scossa a quei capannelli che sulla piazza della Scala stanno accampati…Ognuno fa la pace e la guerra dieci volte al giorno, tira oroscopi, fa profezie, combina alleanze, scioglie questo Stato o quello…”. Più attuale di così!
Infine (24 gennaio 1877), alcuni giudiziosi consigli a quelle dame che si dolevano perché i giovin signori del tempo manifestavano maggior attenzione a “quelle altre” piuttosto che a loro. Per recuperare l’interesse degli uomini, raccomandava alle dame suddette: “Si guardino bene dal porsi al livello di quelle là, evitino gli scoppii di voce, la garrulità fatua, la irrequietezza del gesto, la mobilità provocante, gli ondeggiamenti voluttuosi della persona”, e vedranno che “la gioventù non è sì floscia e scaduta che la mia bella lettrice (l’ immaginaria signora “giovane e bella” alla quale si rivolge nelle sue “Conversazioni – ndr.) non trovi sempre un braccio di giovane che sia superbo di farla ballare, di accompagnarla alla sua carrozza, un’anima di giovane che si apra, compiacendosene, al placido raggio del suo spirito…”.
Giovanni Zannini
giovedì 15 marzo 2012
QUESTIONE DI "ESCORT"
Enrico Prendigrano, Assessore Comunale allo Sviluppo Edilizio, passeggia avanti e indietro, fumando una sigaretta dopo l’altra, dinanzi all’ingresso del condominio ove, al quinto piano, c’è il suo piccolo studio.
“Manca mezz’ora”, pensa, “ma è meglio star larghi. Magari arriva prima e, non trovando il nome, c’è il rischio che se ne vada.” Sulla pulsantiera, infatti, ci sono solo le sue iniziali, inutile far sapere alla gente i fatti propri.
L’appuntamento è per le cinque, ma alle quattro e mezza ecco avanzarsi un fior di ragazza che se ne vedono poche: “Ho fatto proprio bene”pensa Enrico, compiacendosi per la sua previdenza, mentre si avvicina alla fata.
“Lei cerca me, vero, signorina” dice, sfoggiando il miglior sorriso e porgendole la mano. “Perchè no..…”, fa l’altra, con un sorriso incoraggiante. “Si, sono proprio io” prosegue, sicuro, l’uomo, prendendola confidenzialmente sottobraccio ed avviandosi verso l’ascensore, “venga, venga, saliamo, vedrà, è un posticino proprio carino”. La ragazza lo segue docilmente, ed eccoli nello studiolo. “E’ bello, qui, c’è una vista fantastica” si complimenta la ragazza che indossa un “tubino” in cima al quale spunta uno splendido “decolletè”. “E’ vero” gli fa eco Enrico, galante, con un sorriso, “ma sono certo che, quando ti sarai tolta il vestitino, il panorama che apparirà sarà ancor più bello”. L’altra non se lo fa ripetere e, dopo il “decolletè”, ecco, in tutto il suo splendore, il resto che l’uomo, estasiato, ammira poco dopo, nello “studiolo” ove, al posto della scrivania, c’è un grande letto.
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“E’ stato molto bello, complimenti” dice l’uomo alla donna che si sta riinfilando con qualche difficoltà, data l’abbondanza di curve, il tubino. “E’ vero”, risponde, “è piaciuto anche a me, ma ora parliamo di cose serie: fa duemila”. Enrico, ancora mollemente disteso sul lettone, la guarda con occhio interrogativo. E l’altra, come a giustificare l’entità dell’onorario,” E che ti credi!” fa, guardandolo freddamente,“ io sono una “escort” di pregio, e sulla tariffa non transigo”. A questo punto l’altro fa un zompo sul letto, e così, mezzo nudo com’è, le si pianta davanti guardandola con occhi spiritati:” Ma” balbetta “ il dottor Cementi mi ha detto che era tutto pagato!”.
“Il dottor Cementi? E chi è” replica l’altra. “Ma come chi è” insiste l’uomo, “Paolo Cementi, Amministratore Delegato della SpA “ Capannoni Sicuri”, l’ impresa di costruzioni che partecipa alla gara d’appalto per la creazione della zona industriale sud, il quale mi ha assicurato che mi avrebbe mandato in omaggio la Samanta”, dice d’un fiato il Prendigrano guardando minacciosamente la donna . “Prima di tutto”, risponde quella, “io non mi chiamo Samanta, ma Debora, e poi io questo signor Cementi non so proprio chi sia, per cui o mi cacci la grana o comincio a gridare”.
Solo allora l’uomo si rende conto dell’equivoco in cui è caduto avvicinando con eccessiva precipitazione una presunta Samantha che, era, invece, una Debora che col Cementi non ci aveva nulla a che fare.
Ma di fronte al pericolo dello scandalo che avrebbe compromesso una carriera politica già ben avviata e, soprattutto, redditizia, Enrico Prendigrano preferisce mollare, profferendo parole irriferibili, i duemila euro alla Debora che se ne va offesa, senza salutare, mentre lui se ne torna malinconicamente a letto per rifarsi delle recenti fatiche amorose e dell’arrabbiatura.
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Aveva preso sonno da una mezz’oretta quando è svegliato da una ripetuta scampanellata. Maledicendo i seccatori, si avvia alla porta e, apertala, si trova di fronte una bella ragazza sui diciott’anni questa volta in maglioncino e minigonna ascellare che, prima che lui possa profferir parola, gli getta le braccia al collo dicendogli: “Sono la Samanta e mi manda il Paolo della “Capannoni Sicuri”. Scusa il ritardo, ma ho forato ed ho perso un mucchio di tempo”, e poi si avvia, mentre si toglie il maglioncino, verso lo “studio”.
In un lampo, Enrico Prendigrano capisce, e gli vengono i sudori freddi. Fosse stato più giovane, avrebbe ringraziato la buona sorte se gli avesse fatto cadere fra le braccia un così succulento bocconcino, e gratis per giunta, ma alla sua età – siamo sulla sessantina - è un’altra cosa. I medici gli hanno raccomandato di starci attento , e di non esagerare mai: e due volte, in poco più di un’ora, può essere molto pericoloso. Ma come glielo dice alla ragazza?
Di fronte ai suoi tentennamenti – ho il mal di testa, ho dormito male, ho il diabete mellito, ho un appuntamento importante – quella non vuol sentir ragioni: è stata pagata per fornicare con Enrico Prendigrano, e ciò le impone di osservare l’impegno assunto (oltrettutto, con pagamento anticipato) con il Paolo Cementi che, se venisse a sapere della sua inosservanza, potrebbe revocarle la fiducia e compromettere così un brillante futuro di “escort”.
Fu così che nello “studiolo” del Prendigrano avvenne quella volta un inedito caso di violenza sessuale.
Da una parte, in veste di violentatore, la Samanta; dall’altra, vittima, un Assessore Comunale che alla fine, nonostante una disperata resistenza, fu costretto a cedere alle pressanti ed abili profferte amorose di una fanciulla - certamente di dubbia moralità, ma innegabilmente dotata di profonda coscienza professionale - ben determinata ad osservare gli impegni contrattualmente assunti, sia pure verbalmente, ma la parola è parola, con il Cementi.
Da allora il Prendigrano, sopravvissuto, pur malconcio, a quella “performance” amorosa, si fece più cauto e accolse le “escort” solo dopo averle sottoposte ad un prudente interrogatorio onde accertare con precisione non solo la loro identità, ma pure la ragione sociale delle ditte offerenti nonché nome, cognome e indirizzo dei loro amministratori delegati. Giovanni Zannini
“Manca mezz’ora”, pensa, “ma è meglio star larghi. Magari arriva prima e, non trovando il nome, c’è il rischio che se ne vada.” Sulla pulsantiera, infatti, ci sono solo le sue iniziali, inutile far sapere alla gente i fatti propri.
L’appuntamento è per le cinque, ma alle quattro e mezza ecco avanzarsi un fior di ragazza che se ne vedono poche: “Ho fatto proprio bene”pensa Enrico, compiacendosi per la sua previdenza, mentre si avvicina alla fata.
“Lei cerca me, vero, signorina” dice, sfoggiando il miglior sorriso e porgendole la mano. “Perchè no..…”, fa l’altra, con un sorriso incoraggiante. “Si, sono proprio io” prosegue, sicuro, l’uomo, prendendola confidenzialmente sottobraccio ed avviandosi verso l’ascensore, “venga, venga, saliamo, vedrà, è un posticino proprio carino”. La ragazza lo segue docilmente, ed eccoli nello studiolo. “E’ bello, qui, c’è una vista fantastica” si complimenta la ragazza che indossa un “tubino” in cima al quale spunta uno splendido “decolletè”. “E’ vero” gli fa eco Enrico, galante, con un sorriso, “ma sono certo che, quando ti sarai tolta il vestitino, il panorama che apparirà sarà ancor più bello”. L’altra non se lo fa ripetere e, dopo il “decolletè”, ecco, in tutto il suo splendore, il resto che l’uomo, estasiato, ammira poco dopo, nello “studiolo” ove, al posto della scrivania, c’è un grande letto.
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“E’ stato molto bello, complimenti” dice l’uomo alla donna che si sta riinfilando con qualche difficoltà, data l’abbondanza di curve, il tubino. “E’ vero”, risponde, “è piaciuto anche a me, ma ora parliamo di cose serie: fa duemila”. Enrico, ancora mollemente disteso sul lettone, la guarda con occhio interrogativo. E l’altra, come a giustificare l’entità dell’onorario,” E che ti credi!” fa, guardandolo freddamente,“ io sono una “escort” di pregio, e sulla tariffa non transigo”. A questo punto l’altro fa un zompo sul letto, e così, mezzo nudo com’è, le si pianta davanti guardandola con occhi spiritati:” Ma” balbetta “ il dottor Cementi mi ha detto che era tutto pagato!”.
“Il dottor Cementi? E chi è” replica l’altra. “Ma come chi è” insiste l’uomo, “Paolo Cementi, Amministratore Delegato della SpA “ Capannoni Sicuri”, l’ impresa di costruzioni che partecipa alla gara d’appalto per la creazione della zona industriale sud, il quale mi ha assicurato che mi avrebbe mandato in omaggio la Samanta”, dice d’un fiato il Prendigrano guardando minacciosamente la donna . “Prima di tutto”, risponde quella, “io non mi chiamo Samanta, ma Debora, e poi io questo signor Cementi non so proprio chi sia, per cui o mi cacci la grana o comincio a gridare”.
Solo allora l’uomo si rende conto dell’equivoco in cui è caduto avvicinando con eccessiva precipitazione una presunta Samantha che, era, invece, una Debora che col Cementi non ci aveva nulla a che fare.
Ma di fronte al pericolo dello scandalo che avrebbe compromesso una carriera politica già ben avviata e, soprattutto, redditizia, Enrico Prendigrano preferisce mollare, profferendo parole irriferibili, i duemila euro alla Debora che se ne va offesa, senza salutare, mentre lui se ne torna malinconicamente a letto per rifarsi delle recenti fatiche amorose e dell’arrabbiatura.
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Aveva preso sonno da una mezz’oretta quando è svegliato da una ripetuta scampanellata. Maledicendo i seccatori, si avvia alla porta e, apertala, si trova di fronte una bella ragazza sui diciott’anni questa volta in maglioncino e minigonna ascellare che, prima che lui possa profferir parola, gli getta le braccia al collo dicendogli: “Sono la Samanta e mi manda il Paolo della “Capannoni Sicuri”. Scusa il ritardo, ma ho forato ed ho perso un mucchio di tempo”, e poi si avvia, mentre si toglie il maglioncino, verso lo “studio”.
In un lampo, Enrico Prendigrano capisce, e gli vengono i sudori freddi. Fosse stato più giovane, avrebbe ringraziato la buona sorte se gli avesse fatto cadere fra le braccia un così succulento bocconcino, e gratis per giunta, ma alla sua età – siamo sulla sessantina - è un’altra cosa. I medici gli hanno raccomandato di starci attento , e di non esagerare mai: e due volte, in poco più di un’ora, può essere molto pericoloso. Ma come glielo dice alla ragazza?
Di fronte ai suoi tentennamenti – ho il mal di testa, ho dormito male, ho il diabete mellito, ho un appuntamento importante – quella non vuol sentir ragioni: è stata pagata per fornicare con Enrico Prendigrano, e ciò le impone di osservare l’impegno assunto (oltrettutto, con pagamento anticipato) con il Paolo Cementi che, se venisse a sapere della sua inosservanza, potrebbe revocarle la fiducia e compromettere così un brillante futuro di “escort”.
Fu così che nello “studiolo” del Prendigrano avvenne quella volta un inedito caso di violenza sessuale.
Da una parte, in veste di violentatore, la Samanta; dall’altra, vittima, un Assessore Comunale che alla fine, nonostante una disperata resistenza, fu costretto a cedere alle pressanti ed abili profferte amorose di una fanciulla - certamente di dubbia moralità, ma innegabilmente dotata di profonda coscienza professionale - ben determinata ad osservare gli impegni contrattualmente assunti, sia pure verbalmente, ma la parola è parola, con il Cementi.
Da allora il Prendigrano, sopravvissuto, pur malconcio, a quella “performance” amorosa, si fece più cauto e accolse le “escort” solo dopo averle sottoposte ad un prudente interrogatorio onde accertare con precisione non solo la loro identità, ma pure la ragione sociale delle ditte offerenti nonché nome, cognome e indirizzo dei loro amministratori delegati. Giovanni Zannini
MUSSOLINI MARITO PENTITO
Per quanto incredibile possa apparire, donna Rachele, la moglie di Mussolini, apprese della tresca del marito con Claretta Petacci, nota a quasi tutti gli italiani, e non solo, appena all’indomani del 25 luglio 1943 che costituì per il duce la caduta del suo potere e per lei la caduta del duce come marito.
Lo afferma (in contrasto con altre tesi secondo le quali essa ne era al corrente), Vittorio, figlio del duce, nel suo “Due donne nella tempesta – Arnoldo Mondadori Editore – 1961 “ ove racconta fatti ed episodi della vita di Rachele e di Hedda Ciano Mussolini soffermandosi in particolare sul contrasto fra la moglie e l’amante del duce.
Secondo l’autore, lo scontro decisivo fra le due donne avvenne allorchè Mussolini, liberato dagli uomini di Hitler sul Gran Sasso, prese la tormentata decisione di fondare la Repubblica Sociale Italiana installandosi a Salò che divenne la capitale dello stato fantoccio succube dei tedeschi.
Claretta Petacci, arrestata all’indomani del fatidico 25 luglio, e poi liberata dopo l’8 settembre 1943 raggiunge l’amante sul lago di Garda e si installa a Gardone nella villa Fiordaliso.
Il libro rivela che la delicata situazione venne affrontata sia dal figlio che dalla moglie all’insaputa l’uno dall’altro, in tempi assai vicini, e, pur in assenza di date, pare di comprendere che l’iniziativa , tendente a convincere il padre ad allontanare l’amante, fu presa dal figlio Vittorio.
Il legame del duce aveva suscitato critiche anche da parte dei più fedeli fascisti repubblicani che consideravano la Petacci come un’onta ed un pericolo perché l’immagine del capo facilmente manovrato da una donna che per di più non era sua moglie, costituiva politicamente una situazione di pericolo.
Il figlio condivideva tale critica e si decise, con immaginabile comprensibile imbarazzo, ad affrontare la situazione in un colloquio con cui pregò il padre “per il bene di tutti, di sacrificare anche l’amore di questa donna imponendole di allontanarsi da Gardone nel più breve tempo possibile”.
Mussolini, pur tranquillizzando il figlio che, nonostante quel legame, “nulla sarebbe cambiato nei riguardi della mamma e nostri”, alla fine lo ringraziò per la franchezza dimostrata e concluse affermando che “non aveva nulla in contrario ad allontanare Clara da Gardone”.
Tale colloquio fu certamente riferito da Mussolini all’amante che, due giorni dopo scrisse a Vittorio una lettera di sette pagine con la quale ribadiva il suo profondo amore per il padre, affermando che “quelle poche ora che riusciamo a strappare alla dura realtà delle cose e degli uomini io le passo a consolarlo di tante amarezze e di tanti dolori”.
E concludeva: ”Anche lei, però, vuole allontanarmi da qui. Se questo sarà necessario dovrò ubbidire…ma non creda che questo rappresenterà un vantaggio per suo padre che, andata via io, sarà ancora più solo, senza un amico, senza nessuno”.
Ma quale è il punto di vista di Vittorio Mussolini a proposito del legame con la Petacci, dopo il delicato colloquio con il padre?
Molto comprensivo. “…Mi parlò di lei – scrive – con molta umanità, con molta pacatezza… Ebbi l’impressione che Clara Petacci rappresentasse per lui un affetto indubbiamente profondo, anche perché forse era la prima donna, fra le tante che aveva avute, che lo amasse disinteressatamente: ma che tuttavia ella non rappresentasse in alcun modo un pericolo né familiare né tanto meno politico. Via via che mio padre parlava, io mi sentivo sempre più piccolo e, da accusatore, quasi accusato…”.
E dopo aver ricevuto la lettera dalla Petacci? Anche qui il commento è molto pacato, parzialmente assolutorio:”…Ripensandoci con l’andare del tempo e imparando a giudicare più umanamente tutta questa vicenda, debbo convenire che anche lei non aveva tutti i torti e che non sempre un uomo in certi momenti eccezionali della vita può trovare nella sua famiglia, fra le persone del suo stesso sangue, quel conforto che invece gli può provenire da una persona assolutamente estranea , che si mette al suo fianco attraverso una delle mille e misteriose strade dell’amore…”.
Rachele Mussolini, naturalmente, non la pensa così, e ignorando l’avvenuto incontro del figlio con il padre, e che la situazione si sarebbe risolta anche senza la necessità di un suo intervento, poco tempo dopo (si ritiene - le date, come detto, mancano) parte all’attacco.
Lo scontro, scrive l’autore, avvenuto nella villa della Petacci, fu “drammatico, quasi disperato. Entrambe alla fine restarono sulle loro posizioni…anche se praticamente, un successo mia madre lo ebbe perché Clara, sconvolta, si decise a partire…”.
Ma grave fu il prezzo anche per la moglie che, pur forte di natura e temprata da drammatici avvenimenti, provata dalla violenza dello scontro, entrò in crisi.
Ricorda Vittorio:”…Per la prima volta nella mia vita, se si eccettuano i giorni in cui erano nati Romano e Anna Maria, io vidi mia madre a letto in preda ad uno shok nervoso e terribile. I medici si allarmarono temendo un collasso”.
Quali le conseguenze?
Da una parte “per mio padre che aveva immediatamente saputo dello scontro da una telefonata di Clara, il colpo fu quasi altrettanto grave. Tutto il giorno chiamò per telefono temendo che mia madre non volesse vederlo. Poi, verso sera, le mandò un biglietto chiedendole se poteva venire da lei…”.
Il pentimento è in atto.
E dall’altra?
La reazione è quella della donna tradita che si avvede con gioia di aver riacquistato l’amore dell’uomo amato.
“Ricordo – prosegue il figlio – che mia madre si rianimò e che nella sua ingenua politica femminile, mi incaricò di rispondere a papà che lo avrebbe visto volentieri, ma un poco più tardi”.
E qui un particolare veramente toccante:”…Approfittò di questo tempo per far riordinare la stanza e per curare un po’ anche sè stessa. Era sfinita e stravolta, irriconoscibile…”: è il tentativo disperato di non sfigurare troppo nel confronto con l’altra, più giovane e bella.
Finalmente, l’incontro.
“…Mio padre arrivò quasi subito, addolorato e commosso. Portai una sedia accanto al letto della mamma e li lasciai soli nella speranza che ritrovassero un’ora di pace. Restarono insieme tutta la sera. Dalla stanza vicina , dalla quale non riuscivo a muovermi, non potevo capire che qualche parola: parlava quasi sempre mio padre, con la sua voce grave e calda…”.
L’episodio, nel quale si inserisce l’affetto del figlio che non riesce a lasciare la stanza accanto a quella in cui si sta riannodando il vincolo della propria famiglia, è un quadro che restituisce un aspetto a noi sconosciuto del duce, quello dell’uomo in cui il sentimento prevale sulla passione.
Sentimento, però, definitivamente sepolto nella camera ove i due amanti trascorreranno la loro ultima notte nella triste casa di Giulino di Mezzegra, prima di affrontare, per l’ultima volta insieme, la morte.
Giovanni Zannini
PS: quanto segue non c’entra nulla con questo post. Serve solo ad evidenziare una curiosità che emerge dal libro citato di Vittorio Mussolini. Questi, eletto segretario dei fasci repubblicani in Germania, scrive in proposito “…Fu la prima elezione a carattere democratico a cui abbia mai partecipato”. La democrazia, una novità.
Lo afferma (in contrasto con altre tesi secondo le quali essa ne era al corrente), Vittorio, figlio del duce, nel suo “Due donne nella tempesta – Arnoldo Mondadori Editore – 1961 “ ove racconta fatti ed episodi della vita di Rachele e di Hedda Ciano Mussolini soffermandosi in particolare sul contrasto fra la moglie e l’amante del duce.
Secondo l’autore, lo scontro decisivo fra le due donne avvenne allorchè Mussolini, liberato dagli uomini di Hitler sul Gran Sasso, prese la tormentata decisione di fondare la Repubblica Sociale Italiana installandosi a Salò che divenne la capitale dello stato fantoccio succube dei tedeschi.
Claretta Petacci, arrestata all’indomani del fatidico 25 luglio, e poi liberata dopo l’8 settembre 1943 raggiunge l’amante sul lago di Garda e si installa a Gardone nella villa Fiordaliso.
Il libro rivela che la delicata situazione venne affrontata sia dal figlio che dalla moglie all’insaputa l’uno dall’altro, in tempi assai vicini, e, pur in assenza di date, pare di comprendere che l’iniziativa , tendente a convincere il padre ad allontanare l’amante, fu presa dal figlio Vittorio.
Il legame del duce aveva suscitato critiche anche da parte dei più fedeli fascisti repubblicani che consideravano la Petacci come un’onta ed un pericolo perché l’immagine del capo facilmente manovrato da una donna che per di più non era sua moglie, costituiva politicamente una situazione di pericolo.
Il figlio condivideva tale critica e si decise, con immaginabile comprensibile imbarazzo, ad affrontare la situazione in un colloquio con cui pregò il padre “per il bene di tutti, di sacrificare anche l’amore di questa donna imponendole di allontanarsi da Gardone nel più breve tempo possibile”.
Mussolini, pur tranquillizzando il figlio che, nonostante quel legame, “nulla sarebbe cambiato nei riguardi della mamma e nostri”, alla fine lo ringraziò per la franchezza dimostrata e concluse affermando che “non aveva nulla in contrario ad allontanare Clara da Gardone”.
Tale colloquio fu certamente riferito da Mussolini all’amante che, due giorni dopo scrisse a Vittorio una lettera di sette pagine con la quale ribadiva il suo profondo amore per il padre, affermando che “quelle poche ora che riusciamo a strappare alla dura realtà delle cose e degli uomini io le passo a consolarlo di tante amarezze e di tanti dolori”.
E concludeva: ”Anche lei, però, vuole allontanarmi da qui. Se questo sarà necessario dovrò ubbidire…ma non creda che questo rappresenterà un vantaggio per suo padre che, andata via io, sarà ancora più solo, senza un amico, senza nessuno”.
Ma quale è il punto di vista di Vittorio Mussolini a proposito del legame con la Petacci, dopo il delicato colloquio con il padre?
Molto comprensivo. “…Mi parlò di lei – scrive – con molta umanità, con molta pacatezza… Ebbi l’impressione che Clara Petacci rappresentasse per lui un affetto indubbiamente profondo, anche perché forse era la prima donna, fra le tante che aveva avute, che lo amasse disinteressatamente: ma che tuttavia ella non rappresentasse in alcun modo un pericolo né familiare né tanto meno politico. Via via che mio padre parlava, io mi sentivo sempre più piccolo e, da accusatore, quasi accusato…”.
E dopo aver ricevuto la lettera dalla Petacci? Anche qui il commento è molto pacato, parzialmente assolutorio:”…Ripensandoci con l’andare del tempo e imparando a giudicare più umanamente tutta questa vicenda, debbo convenire che anche lei non aveva tutti i torti e che non sempre un uomo in certi momenti eccezionali della vita può trovare nella sua famiglia, fra le persone del suo stesso sangue, quel conforto che invece gli può provenire da una persona assolutamente estranea , che si mette al suo fianco attraverso una delle mille e misteriose strade dell’amore…”.
Rachele Mussolini, naturalmente, non la pensa così, e ignorando l’avvenuto incontro del figlio con il padre, e che la situazione si sarebbe risolta anche senza la necessità di un suo intervento, poco tempo dopo (si ritiene - le date, come detto, mancano) parte all’attacco.
Lo scontro, scrive l’autore, avvenuto nella villa della Petacci, fu “drammatico, quasi disperato. Entrambe alla fine restarono sulle loro posizioni…anche se praticamente, un successo mia madre lo ebbe perché Clara, sconvolta, si decise a partire…”.
Ma grave fu il prezzo anche per la moglie che, pur forte di natura e temprata da drammatici avvenimenti, provata dalla violenza dello scontro, entrò in crisi.
Ricorda Vittorio:”…Per la prima volta nella mia vita, se si eccettuano i giorni in cui erano nati Romano e Anna Maria, io vidi mia madre a letto in preda ad uno shok nervoso e terribile. I medici si allarmarono temendo un collasso”.
Quali le conseguenze?
Da una parte “per mio padre che aveva immediatamente saputo dello scontro da una telefonata di Clara, il colpo fu quasi altrettanto grave. Tutto il giorno chiamò per telefono temendo che mia madre non volesse vederlo. Poi, verso sera, le mandò un biglietto chiedendole se poteva venire da lei…”.
Il pentimento è in atto.
E dall’altra?
La reazione è quella della donna tradita che si avvede con gioia di aver riacquistato l’amore dell’uomo amato.
“Ricordo – prosegue il figlio – che mia madre si rianimò e che nella sua ingenua politica femminile, mi incaricò di rispondere a papà che lo avrebbe visto volentieri, ma un poco più tardi”.
E qui un particolare veramente toccante:”…Approfittò di questo tempo per far riordinare la stanza e per curare un po’ anche sè stessa. Era sfinita e stravolta, irriconoscibile…”: è il tentativo disperato di non sfigurare troppo nel confronto con l’altra, più giovane e bella.
Finalmente, l’incontro.
“…Mio padre arrivò quasi subito, addolorato e commosso. Portai una sedia accanto al letto della mamma e li lasciai soli nella speranza che ritrovassero un’ora di pace. Restarono insieme tutta la sera. Dalla stanza vicina , dalla quale non riuscivo a muovermi, non potevo capire che qualche parola: parlava quasi sempre mio padre, con la sua voce grave e calda…”.
L’episodio, nel quale si inserisce l’affetto del figlio che non riesce a lasciare la stanza accanto a quella in cui si sta riannodando il vincolo della propria famiglia, è un quadro che restituisce un aspetto a noi sconosciuto del duce, quello dell’uomo in cui il sentimento prevale sulla passione.
Sentimento, però, definitivamente sepolto nella camera ove i due amanti trascorreranno la loro ultima notte nella triste casa di Giulino di Mezzegra, prima di affrontare, per l’ultima volta insieme, la morte.
Giovanni Zannini
PS: quanto segue non c’entra nulla con questo post. Serve solo ad evidenziare una curiosità che emerge dal libro citato di Vittorio Mussolini. Questi, eletto segretario dei fasci repubblicani in Germania, scrive in proposito “…Fu la prima elezione a carattere democratico a cui abbia mai partecipato”. La democrazia, una novità.
martedì 6 marzo 2012
NINO BIXIO COMBATTENTE SANGUIGNO POLITICIO AVVEDUTO IMPRESARIO SFORTUNATO
Al solo nominarlo, questo nome, par di udire il rombo del cannone, il crepitare della fucileria, gli urli degli uomini che si scagliano l’uno contro l’altro per uccidersi, il lamento dei feriti, gli ordini degli ufficiali che incitano la truppa al combattimento, e par di sentire nel naso l’odore acre della polvere da sparo.
In mezzo a tutto ciò trascorse per molti anni l’esistenza quest’uomo che visse mille avventure del Risorgimento italiano e la cui personalità viene sinteticamente ma significativamente descritta dalle parole sibilline di Garibaldi ”… Bixio! Oh che uomo!...Che uomo” che lasciano sottintendere l’ammirazione per le sue virtù, ma anche la critica per i suoi molti difetti, ciononostante concludendo: ”Trovatemi un altro Bixio ed io faccio subito fucilare questo”.
Sugli eccessi di Bixio si sono dette molte cose, ma quella che meglio fotografa il personaggio è la “benda sanguigna” che talora cala sui suoi occhi con violenza irresistibile, di cui parla Mino Milani, autorevole autore di molti libri di storia risorgimentale, nel suo “La crocera del Maddaloni – Vita e morte di Nino Bixio – Mursia editore – 1977”.
Ma cosa provoca la caduta di questa malefica “benda” sugli occhi di un uomo altrimenti saggio ed equilibrato, quando indossa la divisa ? Giuseppe Guerzoni, altro biografo di Bixio, così risponde :”… era un uomo d’impeti…..: che si avesse l’obbligo di fare una cosa in un dato tempo, e che nonostante ciò si pensasse alla fame, al sonno, alla stanchezza ed al male, non lo poteva capire. I fiacchi, i deboli, gli svogliati, li aborriva.
Era talvolta eccessivo perché credeva tutti eguali a lui, era ingiusto perché sognava tutti gli uomini perfetti…Così, un segno anche lontano…di indisciplina, di disubbedienza, di irriverenza di un soldato, , d’un ufficiale, d’un subordinato, gli dava subito alla testa e gli faceva calar sugli occhi una “benda così sanguigna” che talvolta lo disumanava…”..
Come l’11 settembre 1860 nel porto di Paola, in Sicilia,ove, desideroso di accorrere a Caserta per dar man forte a Garibaldi che da un momento all’altro rischia di essere attaccato dai Borbonici, pretende (ed ottiene, gli altri temono di innervosirlo…) di imbarcarsi per primo con la sua divisione su l’ “Elettrico” adibito al trasporto. Ad un certo punto gli dicono che su quella nave non c’è più posto, e lui ordina che la truppa stia in piedi, ma anche fatto ciò, ad un certo punto lo informano che a bordo non vi è più spazio neppur per un sol uomo.
S’infuria, si fa portare sull’”Elettrico” e lì constata che, contrariamente ai suoi ordini, molti garibaldini sono tranquillamente sdraiati in coperta a riposare. Allora afferra un fucile per la canna e comincia a colpire forsennatamente con il calcio quei poveracci , fino a che uno di quelli è colpito a morte. La truppa e l’equipaggio reagiscono e se non fossero accorsi altri ufficiali ed il comandante della nave, Nino Bixio l’avrebbero certamente buttato a mare.
Un’altra volta, il 27 maggio 1860, durante la marcia di avvicinamento a Palermo, s’indigna per un gruppo di volontari che bivaccano disordinatamente attorno ad una fontana ed al generale La Masa che si qualifica loro comandante, replica:”Macchè generale La Masa, lei è il generale la merda!”. Anche qui tumulto e sguainar di sciabole cui mette fine l’intervento autorevole del generale Sirtori che ricorda non esser quello il momento della baruffe ma della massima unione in vista della difficile battaglia che li attendeva. E tutto finisce lì.
Ma le cose andarono diversamente una diecina di giorni dopo. Bixio ordina ad un gruppo di garibaldini di costituire la scorta d’onore nel funerale del volontario ungherese Luigi Tukory caduto in battaglia. Il loro comandante, il siciliano Carmelo Agnetta, che non lo conosce, gli dice di accettare ordini solo da Garibaldi, ed all’invito da lui rivoltogli, di qualificarsi, Bixio risponde con un sonoro ceffone. Il duello, rinviato alla fine della spedizione, è inevitabile: nello scontro alla pistola Bixio è colpito alla mano, il combattimento è sospeso ed alla fine i due si riconcilieranno.
Si rimprovera anche a Bixio di aver ucciso senza pietà un picciotto garibaldino che durante la battaglia di Palermo, invece di gettarsi nella mischia, si era attardato per cavar gli stivali ad un morto nemico e, soprattutto, la sua spietatezza nella repressione di Bronte (una località sulle falde dell’Etna, ad una settantina di chilometri da Catania) ove si erano verificati gravi disordini durante i quali la folla inferocita aveva fatto a pezzi 15 proprietari terrieri (i cosiddetti “galantuomini”).
Nella sua opera citata Mino Milani dà un’interpretazione piuttosto difensionista del comportamento di Bixio convinto di trovarsi di fronte ad un’insurrezione suscitata dai borbonici contro l’invasione garibaldina.
Lo dimostra un proclama rivolto alla popolazione con cui afferma che ”la corte di Napoli ha educato una parte di voi al delitto ed oggi vi spinge a commetterlo”, donde la sua determinazione nel reprimere sul nascere un moto che avrebbe potuto, a suo avviso, espandersi a macchia d’olio in Sicilia e mettere in pericolo l’esito della spedizione garibaldina.
Anche se, aggiunge l’autore, le presunte efferatezze di Bixio si limitano (pure se il sacrificio di una sola vita umana è sempre grave delitto) all’ordine di fucilare cinque capipopolo imputati di aver fatto e pezzi le 15 vittime dell’insurrezione, a seguito della sentenza di una Commissione Straordinaria di guerra presieduta da tal maggiore Francesco de Felice, incaricata di istruire il processo.
Va detto, per la verità, che forse Garibaldi conosceva il vero significato dell’insurrezione di Bronte: una rivolta popolare contadina contro padroni esosi ed insensibili alle loro miserabili condizioni di vita, ma che egli avesse autorizzato Bixio (che era in buonafede) ad intervenire, sia per compiacere gli inglesi, suoi alleati occulti, titolari di interessi economici molto rilevanti nell’isola, sia per accaparrarsi il favore dei grandi proprietari terrieri, sganciandoli dalla fedeltà ai Borboni.
Prima di concludere sulla disamina di questo aspetto della personalità di Nino Bixio, occorre però rilevare che in molti casi ebbe lui stesso a pentirsi di tali eccessi per i quali Garibaldi non esitò a criticarlo ed in qualche caso a punirlo. Significative le parole che egli gli rivolge che dovrebbero essere di monito a chiunque abbia pubbliche responsabilità: ”Come potete comandare 10.000 uomini voi che non sapete comandare a voi stesso?”.
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Ma, a un certo punto, Bixio si trasforma. Si direbbe che dopo i primi anni di vita trascorsi - praticamente rinnegato dalla famiglia per il suo caratteraccio - fra mille avventure sui mari di mezzo mondo, ove da mozzo arriva a conseguire la patente di “Capitano mercantile per la navigazione illimitata”; dopo aver partecipato all’età di 27 anni, nel 1848, alla prima Guerra d’Indipendenza, poi nel 1849 alla difesa della gloriosa Repubblica Romana, e, nel 1859, alla seconda Guerra d’Indipendenza; e poi, ancora, l’anno dopo, nel mitico anno 1860, alla Spedizione dei Mille, egli senta il bisogno di una pausa di riflessione: e si dà alla politica. Sull’onda della popolarità acquisita con le sue gesta di combattente viene eletto per la prima volta nel 1861 alla Camera dei deputati ove sarà rieletto ininterrottamente prima di passare negli ultimi anni, per nomina regia, al Senato.
Ma, pur sedendo negli scranni parlamentari, egli mantiene la qualifica di militare “a disposizione”, pronto ad indossare di nuovo la divisa (questa volta di generale dell’esercito regio ove è stato inquadrato provenendo dal disciolto esercito dei volontari garibaldini) ove la patria lo chiami.
Ed eccolo, nel 1866, lasciare lo scranno parlamentare per partecipare alla terza Guerra d’indipendenza, per poi rioccuparlo alla fine del conflitto, salvo indossare di nuovo, per l’ultima volta, nel 1870, la divisa, per partecipare, al comando della sua divisione, alla presa di Roma, contribuendo all’impresa con la conquista, senza colpo ferire, della cittadella fortificata di Civitavecchia.
Si potrebbe dire che, mentre Garibaldi, alla fine delle sue imprese, si ritirava nella sua isola, Bixio, una volta rinfoderata la sciabola, la sua Caprera la trovava in Parlamento.
Del deputato Nino Bixio si ricordano soprattutto gli interventi miranti a favorire l’economia della nuova nazione italiana mediante i commerci con l’estero, soprattutto potenziando, da uomo di mare e da buon genovese, la marina mercantile.
I lunghi anni trascorsi sul mare gli avevano procurato un’ esperienza specifica in materia - tanto che si parlò della sua candidatura a capo del Ministero della Marina Mercantile - che gli consentì di avanzare proposte anticipatrici delle quali non si tenne all’epoca gran conto, e che, alla fine, volle lui stesso sperimentare evidenziando di aver coraggio non solo sui campi di battaglia, ma anche nell’agone commerciale.
Egli andava infatti proclamando che lo storico taglio, nel 1869, del Canale di Suez, aveva aperto prospettive nuove ai commerci marittimi che avrebbero dovuto battere non più le rotte inflazionate dell’Atlantico, ma quelle dell’Oriente, sull’esempio degli inglesi e degli olandesi che le stavano monopolizzando ritraendone immensi benefici economici.
Si ricorda, in proposito, una sua lettera del 20.2.1872 al “Corriere Mercantile” di Genova con la quale ricorda di aver visto durante i suoi viaggi in Oriente, a Giacarta, Singapore, Surabaia e così via, molte case lastricate con marmo di Carrara acquistato dagli americani in Italia, trasportato in America e quindi venduto ai ricchi dell’Oriente, con una triangolazione assurda. E snocciola puntigliosamente, una cinquantina di prodotti nazionali (manifatture di cotone, arte vetraria, coltelleria, olio, aceto, formaggi, “butirro”, confetti, candele, cordaggi e spago, oreficerie e argenterie, canditi, cioccolato, e pure bottoni, gesso e calce, cemento, perfino armi e munizioni, e così via) che, grazie alla “porta” di Suez, gli italiani avrebbero potuto vendere direttamente su quel mercato nuovo e molto appetitoso.
Contemporaneamente, allo scopo di favorire questi commerci, Bixio evidenziava la necessità di migliorare la portualità italiana per consentire l’attracco a grandi navi, e che la flotta commerciale nazionale fosse potenziata con la costruzione di navi di maggior stazza – 2000 tonnellate e oltre – rispetto alle navicelle italiane poco redditizie commercialmente, da 200 o 300 tonnellate.
Grandi navi, dunque, ma "miste", ossia a vela ed a vapore, per vincere le bonacce che afflosciano le vele, costringono i naviganti ad attendere angosciosamente il vento che non arriva, e che mettono in pericolo la regolarità dei noli, e in grado di continuare a navigare anche quando il vento non vuol saperne di soffiare.
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E dal momento che non gli danno retta, al di là di generici assensi, decide di realizzare lui stesso le sue idee finanziando la costruzione di una grande nave mista, a vela e vapore, con la quale avrebbe percorso le rotte d’Oriente.
Dopo aver partecipato alla presa di Roma nel 1870 considera esaurita la sua missione di patriota: decide che è giunto il momento di pensare anche agli affari suoi, e nasce il Bixio imprenditore navale, armatore.
Si dimette da deputato ed il Re, per non privare il mondo politico italiano di un nome di prestigio, lo nomina senatore (con qualche malumore del presidente del Senato Casati che si domanda come Bixio, continuamente in giro per il mondo, potrà esercitare le relative funzioni).
Chiede di dimettersi dall’esercito, ma lo scongiurano di non farlo, lui accetta di rimanere simbolicamente “a disposizione”, e inizia la sua nuova avventura.
Apre una sottoscrizione e gira l’Italia per raccogliere fondi con i quali realizzare il sogno di una vita, costruire una grande nave mista, a vela ed a vapore, e trova in Inghilterra a Gateshead, un sobborgo di Habburn on the Tyne, un cantiere di proprietà di tal Andrew Leslie, uomo d’affari in apparenza conciliante ma in sostanza molto esigente nel pretendere i suoi crediti, che si dichiara disposto a concludere l'affare.
Nonostante molte promesse, i soci scarseggiano, senza seguire l’esempio del Re che ha aperto la sottoscrizione: ma fra cambiali, rateazioni e dilazioni il contratto fra Bixio e l’inglese è finalmente firmato per la costruzione di una nave avente le seguenti caratteristiche:”Macchina nominale 180 a 200, capace di imprimere 9 miglia in mare; lunghezza 330 piedi (circa 124 metri); larghezza 34 (circa 14 metri ); profondità 23, spiazzamento 4.460 tonnellate, misura costruttore1903 tonnellate, grosso tonnellaggio 2.166, netto 1.691, immersione 21 piedi, portata effettiva 3.300, consumo giornaliero da 15 a 18 tonnellate di carbone”. Il costo: 46.700 sterline pari a L.1.209.000: non c’è che dire, un bel coraggio.
E poi, il nome, ”Maddaloni”: un povero villaggio alla fine di un arco di territorio che parte dalle coste del Tirreno e che ha al centro Capua ove i borbonici l’1 ottobre 1860 tenteranno, nella battaglia del Volturno che scorre non lontano, di arrestare la marcia vittoriosa di Garibaldi.
Bixio deve tenere ad ogni costo l’estrema destra del fronte: se cede, il nemico prenderà alle spalle l’intero schieramento garibaldino e sarà la fine. Il combattimento è furioso, con alterne vicende ma una disperata carica da lui personalmente guidata ha successo – nonostante che un giovane trombettiere siciliano , sconvolto, pieno di paura abbia suonato la ritirata anziché la “carica” come gli è ordinato, e non si sa cosa gli sia successo...- e l’avanzata avversaria è arrestata.
Quel nome, rimasto indelebilmente impresso nella sua memoria, sarà quello della nave che fu all’epoca una delle più grandi della Marina Mercantile italiana, ammirata e visitata con vivo interesse in tutti i porti sulla rotta dell’oriente verso cui Bixio, dopo il varo avvenuto il 21 giugno 1873, si era immediatamente diretto con un carico di carbone destinato a Singapore.
Non era un gran che, non era quella la merce italiana che aveva sognato di trasportare nei mercati d’oriente, ma per cominciare, e con tutti i debiti da pagare, non era il caso di fare gli schizzinosi.
Giunto a destinazione, installa il suo ufficio commerciale e dopo alcuni noli di poca importanza gli capita l’occasione che lo entusiasma: si tratta di un ricco contratto con il governo olandese per il trasporto di truppe verso il nord dell’isola di Sumatra ove le popolazioni locali, gli Atjek, si sono ribellati e chiedono l’indipendenza (un sogno che si realizzerà solo nel 1959 con la nascita della Repubblica di Indonesia) contro il potere coloniale.
Per il viaggio dal porto di Surabaja alla zona di guerra il governo olandese offre un contratto di 7.000 sterline a viaggio, rinnovabile di mese in mese: una manna per Bixio che accetta di corsa.
Si tratta di imbarcare 1200 uomini con cavalli al seguito, trasformando una nave bella e signorile in una caserma galleggiante popolata da pochi olandesi, un gruppo di mercenari europei ed il resto truppe indigene cinesi e malesi di infima qualità.
Già durante il viaggio che avviene di conserva ad un’altra trentina di navi pur esse gonfie di soldataglia, Bixio si accorge che l’affare è meno buono del previsto per il disordine che invade la sua bella nave, le condizioni igieniche disastrose, l’indisciplina che regna sovrana e non vede l’ora sbarcare quella marmaglia.
Ma, giunti a destinazione, gli olandesi indugiano: a terra vi sono problemi, perché gli Atjeh sono agguerritissimi, ed occorre molta cautela.
Nell’attesa, però, le cose a bordo peggiorano sempre più e nell’immondezzaio fiorisce il colera. Primi a lasciarci la pelle sono gli indigeni che vengono gettati a mare e che galleggiano ostinatamente attorno alla nave, ma successivamente il morbo si diffonde anche fra gli europei e gli stessi membri dell’equipaggio.
Finalmente, lo sbarco ha luogo ed hanno inizio le operazioni di bonifica della nave che lentamente riacquista il suo aspetto civile, ma il morbo non sbarca.
Bixio per l’esperienza drammatica vissuta, è incerto se proseguire l’affare con gli olandesi, ma il suo dubbio è superato dalla malattia che lo colpisce ed in breve lo riduce in fin di vita.
Consapevole della fine vicina, detta le sue disposizioni testamentarie che riguardano in primis la moglie, i figli e tutti i suoi dipendenti, soprattutto l’equipaggio del “Maddaloni” al quale destina “un mese di gratificazione di soldo”: poi, il 16 dicembre 1873, esala l’ultimo respiro, all’età di soli 52 anni.
La sua morte pone immediatamente problemi perché mentre i suoi propendono per l’imbalsamazione, gli olandesi pretendono l’immediata distruzione del cadavere per evitare l’ulteriore diffondersi del morbo. Si raggiunge un compromesso per cui il corpo di Bixio, racchiuso in una cassa di ferro, verrà sepolto nell’isoletta di Pulo Tuan in un punto ben definito per consentirne in futuro il recupero.
Ma quei poveri resti non ebbero pace.
Gli Atjeh che avevano evidentemente osservato quei movimenti sospetti, avevano poi recuperato la cassa pensando di trovarci chi sa che ma poi, disillusi (e, di sicuro, schifati), si erano affrettati a riseppellire il cadavere sotto poche badilate di terra: ed un paio di quelli che avevano partecipato all’operazione, contagiati, ci lasciarono la pelle.
Cosicchè, quando nel marzo 1876 il cap.Brook del 2° reggimento di fanteria olandese, comandante la guarnigione del luogo ove era avvenuta la sepoltura, riuscì, grazie ad un indigeno di buona memoria, ad individuarla, vi trovò solo un mucchietto di ossa. La cassetta con i pochi resti fu consegnata con eccezionale solennità - a conferma della fama di cui godeva il personaggio anche al difuori d'Italia - dalle autorità olandesi al Comandante del "R. Avviso Cristoforo Colombo", una nave della Marina Militare Italiana che stava effettuando il giro del mondo - considerato, all'epoca, impresa di eccezionale interesse - e che nell'occasione da Singapore ove aveva fatto tappa, si era recato a Batavia per imbarcare il prezioso reperto. Così l'inviato speciale dell' "Illustrazione Italiana", Patta d'Ancora, descrive sul numero dell'8 luglio 1877 la cerimonia: ""....La mattina del 2 maggio (1877) i preziosi avanzi furono portati sul nostro bordo. Erano a terra a riceverli il Comandante di bordo ed alcuni ufficiali. Un battaglione di fanteria olandese, una brigata d'artiglieria, e uno squadrone di cavalleria, resero gli onori militari; il convoglio funebre era seguito dal Prefetto della provincia di Batavia il quale rappresentava il Governatore Generale dell'isola e da tutti gli altri funzionari sia militari che civili; i cordoni poi del carro erano tenuti da quattro colonnelli dell'esercito olandese...Portate a bordo, le ossa furono consegnate al Comandante il quale fece verificare se fossero quelle registrate nel verbale di consegna. Chiusa di nuovo la cassetta fu portata sul castello di poppa e posta sopra un sarcofago apparecchiato per la circostanza (del quale il giornale pubblica lo schizzo fatto dallo stesso corrispondente - ndr.). Il Prefetto lesse in francese poche ma commoventi parole rammentando la vita del generale e tracciando brevemente quella parte della storia del nostro Risorgimento nella quale ad ogni tratto s'incontra la nobile figura del Bixio. Finì il suo discorso press'a poco con le seguenti parole: "Allorchè l'Italia, scacciati gli stranieri, prese posto fra le nazioni libere il generale Bixio, sdegnando gli ozi della pace e di una vita inattiva, prese le vesti del marinaio e si avventurò sul mare colla fede di aprire alla vostra patria nuovi commerci; ma la morte troncò i suoi nobili disegni. Voi ora reclamate le ossa di questo vostro concittadino e noi siamo fortunati di soddisfare, almeno in parte, al vostro desiderio giacchè noi pure nati in un paese ove la libertà fu conquistata a prezzo di sangue, sappiamo quanto si debbano amare i generosi che
concorsero a redimere e rendere grande la patria". Durante tutto il tempo della cerimonia funebre, i cannoni del forte fecero salve mortuarie e tutti i bastimenti che si trovavano in rada tennero la bandiera a mezz'asta in segno di lutto. Nella mattina del giorno seguente noi lasciammo Batavia dirigendo per Singapore ove ancorammo verso le 2 pomeridiane del giorno 7. Questa sera la cassa contenente le ossa e di cui vi unisco il disegno, sarà consegnata al R. Console di Singapore unitamente alla cassa di ferro che racchiuse il corpo esanime del compianto generale. Su una delle parti di questa cassa l'equipaggio del Maddaloni incise le parole: "G.le N.Bixio - 1873" e sull'altra parte vennero scritte qui a bordo le seguenti linee: "Questa cassa raccolse le spoglie mortali del generale Nino Bixio. Involate e violate da mani barbare, fu con grandi stenti e con sagrifizio di vite umane (durante le lunghe ricerche alcuni soldati olandesi morirono - ndr.) trovata assieme ai gloriosi avanzi dalle autorità Olandesi sulla costa di Atcheen. Queste preziose reliquie nazionali il 2 maggio 1877 vennero consegnate al Comandante del "R.Avviso Cristoforo Colombo" cogli onori militari e con grande dimostrazione di stima della popolazione di Batavia - Il 9 maggio ne ha preso consegna il R. Console di Singapore il quale ha condotto le pratiche per il recupero in seguito a vivo interesse mostrato dal R. Governo".
In effetti i resti mortali del generale Bixio vennero sbarcati in tale data con altra solenne cerimonia, dalla "Cristoforo Colombo" e consegnata al Console italiano di Singapore che provvide a farli pervenire a Genova ove il 29 settembre furono tumulati, con grandi onori, nel cimitero di Staglieno.
E la “Maddaloni”? Era arrivata nel porto di New Diep, in Olanda, verso la metà di aprile 1874 ed ivi messa all’asta dalla Società del Credito degli Armatori per recuperare i debiti che Bixio non era ancora riuscito a saldare.
Acquistata da una società britannica e ribattezzata “City of Castle” fu destinata proprio ad un servizio di linea regolare con l’Estremo Oriente procurando agli armatori inglesi proficui guadagni.
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Le sue idee avevano dunque trionfato: ma a sventolare sul pennone più alto della nave non era più il tricolore d’Italia issato fieramente dal generale Nino Bixio, ma l’”Union Jack” del Regno Unito d’Inghilterra.
Govanni Zannini
In mezzo a tutto ciò trascorse per molti anni l’esistenza quest’uomo che visse mille avventure del Risorgimento italiano e la cui personalità viene sinteticamente ma significativamente descritta dalle parole sibilline di Garibaldi ”… Bixio! Oh che uomo!...Che uomo” che lasciano sottintendere l’ammirazione per le sue virtù, ma anche la critica per i suoi molti difetti, ciononostante concludendo: ”Trovatemi un altro Bixio ed io faccio subito fucilare questo”.
Sugli eccessi di Bixio si sono dette molte cose, ma quella che meglio fotografa il personaggio è la “benda sanguigna” che talora cala sui suoi occhi con violenza irresistibile, di cui parla Mino Milani, autorevole autore di molti libri di storia risorgimentale, nel suo “La crocera del Maddaloni – Vita e morte di Nino Bixio – Mursia editore – 1977”.
Ma cosa provoca la caduta di questa malefica “benda” sugli occhi di un uomo altrimenti saggio ed equilibrato, quando indossa la divisa ? Giuseppe Guerzoni, altro biografo di Bixio, così risponde :”… era un uomo d’impeti…..: che si avesse l’obbligo di fare una cosa in un dato tempo, e che nonostante ciò si pensasse alla fame, al sonno, alla stanchezza ed al male, non lo poteva capire. I fiacchi, i deboli, gli svogliati, li aborriva.
Era talvolta eccessivo perché credeva tutti eguali a lui, era ingiusto perché sognava tutti gli uomini perfetti…Così, un segno anche lontano…di indisciplina, di disubbedienza, di irriverenza di un soldato, , d’un ufficiale, d’un subordinato, gli dava subito alla testa e gli faceva calar sugli occhi una “benda così sanguigna” che talvolta lo disumanava…”..
Come l’11 settembre 1860 nel porto di Paola, in Sicilia,ove, desideroso di accorrere a Caserta per dar man forte a Garibaldi che da un momento all’altro rischia di essere attaccato dai Borbonici, pretende (ed ottiene, gli altri temono di innervosirlo…) di imbarcarsi per primo con la sua divisione su l’ “Elettrico” adibito al trasporto. Ad un certo punto gli dicono che su quella nave non c’è più posto, e lui ordina che la truppa stia in piedi, ma anche fatto ciò, ad un certo punto lo informano che a bordo non vi è più spazio neppur per un sol uomo.
S’infuria, si fa portare sull’”Elettrico” e lì constata che, contrariamente ai suoi ordini, molti garibaldini sono tranquillamente sdraiati in coperta a riposare. Allora afferra un fucile per la canna e comincia a colpire forsennatamente con il calcio quei poveracci , fino a che uno di quelli è colpito a morte. La truppa e l’equipaggio reagiscono e se non fossero accorsi altri ufficiali ed il comandante della nave, Nino Bixio l’avrebbero certamente buttato a mare.
Un’altra volta, il 27 maggio 1860, durante la marcia di avvicinamento a Palermo, s’indigna per un gruppo di volontari che bivaccano disordinatamente attorno ad una fontana ed al generale La Masa che si qualifica loro comandante, replica:”Macchè generale La Masa, lei è il generale la merda!”. Anche qui tumulto e sguainar di sciabole cui mette fine l’intervento autorevole del generale Sirtori che ricorda non esser quello il momento della baruffe ma della massima unione in vista della difficile battaglia che li attendeva. E tutto finisce lì.
Ma le cose andarono diversamente una diecina di giorni dopo. Bixio ordina ad un gruppo di garibaldini di costituire la scorta d’onore nel funerale del volontario ungherese Luigi Tukory caduto in battaglia. Il loro comandante, il siciliano Carmelo Agnetta, che non lo conosce, gli dice di accettare ordini solo da Garibaldi, ed all’invito da lui rivoltogli, di qualificarsi, Bixio risponde con un sonoro ceffone. Il duello, rinviato alla fine della spedizione, è inevitabile: nello scontro alla pistola Bixio è colpito alla mano, il combattimento è sospeso ed alla fine i due si riconcilieranno.
Si rimprovera anche a Bixio di aver ucciso senza pietà un picciotto garibaldino che durante la battaglia di Palermo, invece di gettarsi nella mischia, si era attardato per cavar gli stivali ad un morto nemico e, soprattutto, la sua spietatezza nella repressione di Bronte (una località sulle falde dell’Etna, ad una settantina di chilometri da Catania) ove si erano verificati gravi disordini durante i quali la folla inferocita aveva fatto a pezzi 15 proprietari terrieri (i cosiddetti “galantuomini”).
Nella sua opera citata Mino Milani dà un’interpretazione piuttosto difensionista del comportamento di Bixio convinto di trovarsi di fronte ad un’insurrezione suscitata dai borbonici contro l’invasione garibaldina.
Lo dimostra un proclama rivolto alla popolazione con cui afferma che ”la corte di Napoli ha educato una parte di voi al delitto ed oggi vi spinge a commetterlo”, donde la sua determinazione nel reprimere sul nascere un moto che avrebbe potuto, a suo avviso, espandersi a macchia d’olio in Sicilia e mettere in pericolo l’esito della spedizione garibaldina.
Anche se, aggiunge l’autore, le presunte efferatezze di Bixio si limitano (pure se il sacrificio di una sola vita umana è sempre grave delitto) all’ordine di fucilare cinque capipopolo imputati di aver fatto e pezzi le 15 vittime dell’insurrezione, a seguito della sentenza di una Commissione Straordinaria di guerra presieduta da tal maggiore Francesco de Felice, incaricata di istruire il processo.
Va detto, per la verità, che forse Garibaldi conosceva il vero significato dell’insurrezione di Bronte: una rivolta popolare contadina contro padroni esosi ed insensibili alle loro miserabili condizioni di vita, ma che egli avesse autorizzato Bixio (che era in buonafede) ad intervenire, sia per compiacere gli inglesi, suoi alleati occulti, titolari di interessi economici molto rilevanti nell’isola, sia per accaparrarsi il favore dei grandi proprietari terrieri, sganciandoli dalla fedeltà ai Borboni.
Prima di concludere sulla disamina di questo aspetto della personalità di Nino Bixio, occorre però rilevare che in molti casi ebbe lui stesso a pentirsi di tali eccessi per i quali Garibaldi non esitò a criticarlo ed in qualche caso a punirlo. Significative le parole che egli gli rivolge che dovrebbero essere di monito a chiunque abbia pubbliche responsabilità: ”Come potete comandare 10.000 uomini voi che non sapete comandare a voi stesso?”.
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Ma, a un certo punto, Bixio si trasforma. Si direbbe che dopo i primi anni di vita trascorsi - praticamente rinnegato dalla famiglia per il suo caratteraccio - fra mille avventure sui mari di mezzo mondo, ove da mozzo arriva a conseguire la patente di “Capitano mercantile per la navigazione illimitata”; dopo aver partecipato all’età di 27 anni, nel 1848, alla prima Guerra d’Indipendenza, poi nel 1849 alla difesa della gloriosa Repubblica Romana, e, nel 1859, alla seconda Guerra d’Indipendenza; e poi, ancora, l’anno dopo, nel mitico anno 1860, alla Spedizione dei Mille, egli senta il bisogno di una pausa di riflessione: e si dà alla politica. Sull’onda della popolarità acquisita con le sue gesta di combattente viene eletto per la prima volta nel 1861 alla Camera dei deputati ove sarà rieletto ininterrottamente prima di passare negli ultimi anni, per nomina regia, al Senato.
Ma, pur sedendo negli scranni parlamentari, egli mantiene la qualifica di militare “a disposizione”, pronto ad indossare di nuovo la divisa (questa volta di generale dell’esercito regio ove è stato inquadrato provenendo dal disciolto esercito dei volontari garibaldini) ove la patria lo chiami.
Ed eccolo, nel 1866, lasciare lo scranno parlamentare per partecipare alla terza Guerra d’indipendenza, per poi rioccuparlo alla fine del conflitto, salvo indossare di nuovo, per l’ultima volta, nel 1870, la divisa, per partecipare, al comando della sua divisione, alla presa di Roma, contribuendo all’impresa con la conquista, senza colpo ferire, della cittadella fortificata di Civitavecchia.
Si potrebbe dire che, mentre Garibaldi, alla fine delle sue imprese, si ritirava nella sua isola, Bixio, una volta rinfoderata la sciabola, la sua Caprera la trovava in Parlamento.
Del deputato Nino Bixio si ricordano soprattutto gli interventi miranti a favorire l’economia della nuova nazione italiana mediante i commerci con l’estero, soprattutto potenziando, da uomo di mare e da buon genovese, la marina mercantile.
I lunghi anni trascorsi sul mare gli avevano procurato un’ esperienza specifica in materia - tanto che si parlò della sua candidatura a capo del Ministero della Marina Mercantile - che gli consentì di avanzare proposte anticipatrici delle quali non si tenne all’epoca gran conto, e che, alla fine, volle lui stesso sperimentare evidenziando di aver coraggio non solo sui campi di battaglia, ma anche nell’agone commerciale.
Egli andava infatti proclamando che lo storico taglio, nel 1869, del Canale di Suez, aveva aperto prospettive nuove ai commerci marittimi che avrebbero dovuto battere non più le rotte inflazionate dell’Atlantico, ma quelle dell’Oriente, sull’esempio degli inglesi e degli olandesi che le stavano monopolizzando ritraendone immensi benefici economici.
Si ricorda, in proposito, una sua lettera del 20.2.1872 al “Corriere Mercantile” di Genova con la quale ricorda di aver visto durante i suoi viaggi in Oriente, a Giacarta, Singapore, Surabaia e così via, molte case lastricate con marmo di Carrara acquistato dagli americani in Italia, trasportato in America e quindi venduto ai ricchi dell’Oriente, con una triangolazione assurda. E snocciola puntigliosamente, una cinquantina di prodotti nazionali (manifatture di cotone, arte vetraria, coltelleria, olio, aceto, formaggi, “butirro”, confetti, candele, cordaggi e spago, oreficerie e argenterie, canditi, cioccolato, e pure bottoni, gesso e calce, cemento, perfino armi e munizioni, e così via) che, grazie alla “porta” di Suez, gli italiani avrebbero potuto vendere direttamente su quel mercato nuovo e molto appetitoso.
Contemporaneamente, allo scopo di favorire questi commerci, Bixio evidenziava la necessità di migliorare la portualità italiana per consentire l’attracco a grandi navi, e che la flotta commerciale nazionale fosse potenziata con la costruzione di navi di maggior stazza – 2000 tonnellate e oltre – rispetto alle navicelle italiane poco redditizie commercialmente, da 200 o 300 tonnellate.
Grandi navi, dunque, ma "miste", ossia a vela ed a vapore, per vincere le bonacce che afflosciano le vele, costringono i naviganti ad attendere angosciosamente il vento che non arriva, e che mettono in pericolo la regolarità dei noli, e in grado di continuare a navigare anche quando il vento non vuol saperne di soffiare.
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E dal momento che non gli danno retta, al di là di generici assensi, decide di realizzare lui stesso le sue idee finanziando la costruzione di una grande nave mista, a vela e vapore, con la quale avrebbe percorso le rotte d’Oriente.
Dopo aver partecipato alla presa di Roma nel 1870 considera esaurita la sua missione di patriota: decide che è giunto il momento di pensare anche agli affari suoi, e nasce il Bixio imprenditore navale, armatore.
Si dimette da deputato ed il Re, per non privare il mondo politico italiano di un nome di prestigio, lo nomina senatore (con qualche malumore del presidente del Senato Casati che si domanda come Bixio, continuamente in giro per il mondo, potrà esercitare le relative funzioni).
Chiede di dimettersi dall’esercito, ma lo scongiurano di non farlo, lui accetta di rimanere simbolicamente “a disposizione”, e inizia la sua nuova avventura.
Apre una sottoscrizione e gira l’Italia per raccogliere fondi con i quali realizzare il sogno di una vita, costruire una grande nave mista, a vela ed a vapore, e trova in Inghilterra a Gateshead, un sobborgo di Habburn on the Tyne, un cantiere di proprietà di tal Andrew Leslie, uomo d’affari in apparenza conciliante ma in sostanza molto esigente nel pretendere i suoi crediti, che si dichiara disposto a concludere l'affare.
Nonostante molte promesse, i soci scarseggiano, senza seguire l’esempio del Re che ha aperto la sottoscrizione: ma fra cambiali, rateazioni e dilazioni il contratto fra Bixio e l’inglese è finalmente firmato per la costruzione di una nave avente le seguenti caratteristiche:”Macchina nominale 180 a 200, capace di imprimere 9 miglia in mare; lunghezza 330 piedi (circa 124 metri); larghezza 34 (circa 14 metri ); profondità 23, spiazzamento 4.460 tonnellate, misura costruttore1903 tonnellate, grosso tonnellaggio 2.166, netto 1.691, immersione 21 piedi, portata effettiva 3.300, consumo giornaliero da 15 a 18 tonnellate di carbone”. Il costo: 46.700 sterline pari a L.1.209.000: non c’è che dire, un bel coraggio.
E poi, il nome, ”Maddaloni”: un povero villaggio alla fine di un arco di territorio che parte dalle coste del Tirreno e che ha al centro Capua ove i borbonici l’1 ottobre 1860 tenteranno, nella battaglia del Volturno che scorre non lontano, di arrestare la marcia vittoriosa di Garibaldi.
Bixio deve tenere ad ogni costo l’estrema destra del fronte: se cede, il nemico prenderà alle spalle l’intero schieramento garibaldino e sarà la fine. Il combattimento è furioso, con alterne vicende ma una disperata carica da lui personalmente guidata ha successo – nonostante che un giovane trombettiere siciliano , sconvolto, pieno di paura abbia suonato la ritirata anziché la “carica” come gli è ordinato, e non si sa cosa gli sia successo...- e l’avanzata avversaria è arrestata.
Quel nome, rimasto indelebilmente impresso nella sua memoria, sarà quello della nave che fu all’epoca una delle più grandi della Marina Mercantile italiana, ammirata e visitata con vivo interesse in tutti i porti sulla rotta dell’oriente verso cui Bixio, dopo il varo avvenuto il 21 giugno 1873, si era immediatamente diretto con un carico di carbone destinato a Singapore.
Non era un gran che, non era quella la merce italiana che aveva sognato di trasportare nei mercati d’oriente, ma per cominciare, e con tutti i debiti da pagare, non era il caso di fare gli schizzinosi.
Giunto a destinazione, installa il suo ufficio commerciale e dopo alcuni noli di poca importanza gli capita l’occasione che lo entusiasma: si tratta di un ricco contratto con il governo olandese per il trasporto di truppe verso il nord dell’isola di Sumatra ove le popolazioni locali, gli Atjek, si sono ribellati e chiedono l’indipendenza (un sogno che si realizzerà solo nel 1959 con la nascita della Repubblica di Indonesia) contro il potere coloniale.
Per il viaggio dal porto di Surabaja alla zona di guerra il governo olandese offre un contratto di 7.000 sterline a viaggio, rinnovabile di mese in mese: una manna per Bixio che accetta di corsa.
Si tratta di imbarcare 1200 uomini con cavalli al seguito, trasformando una nave bella e signorile in una caserma galleggiante popolata da pochi olandesi, un gruppo di mercenari europei ed il resto truppe indigene cinesi e malesi di infima qualità.
Già durante il viaggio che avviene di conserva ad un’altra trentina di navi pur esse gonfie di soldataglia, Bixio si accorge che l’affare è meno buono del previsto per il disordine che invade la sua bella nave, le condizioni igieniche disastrose, l’indisciplina che regna sovrana e non vede l’ora sbarcare quella marmaglia.
Ma, giunti a destinazione, gli olandesi indugiano: a terra vi sono problemi, perché gli Atjeh sono agguerritissimi, ed occorre molta cautela.
Nell’attesa, però, le cose a bordo peggiorano sempre più e nell’immondezzaio fiorisce il colera. Primi a lasciarci la pelle sono gli indigeni che vengono gettati a mare e che galleggiano ostinatamente attorno alla nave, ma successivamente il morbo si diffonde anche fra gli europei e gli stessi membri dell’equipaggio.
Finalmente, lo sbarco ha luogo ed hanno inizio le operazioni di bonifica della nave che lentamente riacquista il suo aspetto civile, ma il morbo non sbarca.
Bixio per l’esperienza drammatica vissuta, è incerto se proseguire l’affare con gli olandesi, ma il suo dubbio è superato dalla malattia che lo colpisce ed in breve lo riduce in fin di vita.
Consapevole della fine vicina, detta le sue disposizioni testamentarie che riguardano in primis la moglie, i figli e tutti i suoi dipendenti, soprattutto l’equipaggio del “Maddaloni” al quale destina “un mese di gratificazione di soldo”: poi, il 16 dicembre 1873, esala l’ultimo respiro, all’età di soli 52 anni.
La sua morte pone immediatamente problemi perché mentre i suoi propendono per l’imbalsamazione, gli olandesi pretendono l’immediata distruzione del cadavere per evitare l’ulteriore diffondersi del morbo. Si raggiunge un compromesso per cui il corpo di Bixio, racchiuso in una cassa di ferro, verrà sepolto nell’isoletta di Pulo Tuan in un punto ben definito per consentirne in futuro il recupero.
Ma quei poveri resti non ebbero pace.
Gli Atjeh che avevano evidentemente osservato quei movimenti sospetti, avevano poi recuperato la cassa pensando di trovarci chi sa che ma poi, disillusi (e, di sicuro, schifati), si erano affrettati a riseppellire il cadavere sotto poche badilate di terra: ed un paio di quelli che avevano partecipato all’operazione, contagiati, ci lasciarono la pelle.
Cosicchè, quando nel marzo 1876 il cap.Brook del 2° reggimento di fanteria olandese, comandante la guarnigione del luogo ove era avvenuta la sepoltura, riuscì, grazie ad un indigeno di buona memoria, ad individuarla, vi trovò solo un mucchietto di ossa. La cassetta con i pochi resti fu consegnata con eccezionale solennità - a conferma della fama di cui godeva il personaggio anche al difuori d'Italia - dalle autorità olandesi al Comandante del "R. Avviso Cristoforo Colombo", una nave della Marina Militare Italiana che stava effettuando il giro del mondo - considerato, all'epoca, impresa di eccezionale interesse - e che nell'occasione da Singapore ove aveva fatto tappa, si era recato a Batavia per imbarcare il prezioso reperto. Così l'inviato speciale dell' "Illustrazione Italiana", Patta d'Ancora, descrive sul numero dell'8 luglio 1877 la cerimonia: ""....La mattina del 2 maggio (1877) i preziosi avanzi furono portati sul nostro bordo. Erano a terra a riceverli il Comandante di bordo ed alcuni ufficiali. Un battaglione di fanteria olandese, una brigata d'artiglieria, e uno squadrone di cavalleria, resero gli onori militari; il convoglio funebre era seguito dal Prefetto della provincia di Batavia il quale rappresentava il Governatore Generale dell'isola e da tutti gli altri funzionari sia militari che civili; i cordoni poi del carro erano tenuti da quattro colonnelli dell'esercito olandese...Portate a bordo, le ossa furono consegnate al Comandante il quale fece verificare se fossero quelle registrate nel verbale di consegna. Chiusa di nuovo la cassetta fu portata sul castello di poppa e posta sopra un sarcofago apparecchiato per la circostanza (del quale il giornale pubblica lo schizzo fatto dallo stesso corrispondente - ndr.). Il Prefetto lesse in francese poche ma commoventi parole rammentando la vita del generale e tracciando brevemente quella parte della storia del nostro Risorgimento nella quale ad ogni tratto s'incontra la nobile figura del Bixio. Finì il suo discorso press'a poco con le seguenti parole: "Allorchè l'Italia, scacciati gli stranieri, prese posto fra le nazioni libere il generale Bixio, sdegnando gli ozi della pace e di una vita inattiva, prese le vesti del marinaio e si avventurò sul mare colla fede di aprire alla vostra patria nuovi commerci; ma la morte troncò i suoi nobili disegni. Voi ora reclamate le ossa di questo vostro concittadino e noi siamo fortunati di soddisfare, almeno in parte, al vostro desiderio giacchè noi pure nati in un paese ove la libertà fu conquistata a prezzo di sangue, sappiamo quanto si debbano amare i generosi che
concorsero a redimere e rendere grande la patria". Durante tutto il tempo della cerimonia funebre, i cannoni del forte fecero salve mortuarie e tutti i bastimenti che si trovavano in rada tennero la bandiera a mezz'asta in segno di lutto. Nella mattina del giorno seguente noi lasciammo Batavia dirigendo per Singapore ove ancorammo verso le 2 pomeridiane del giorno 7. Questa sera la cassa contenente le ossa e di cui vi unisco il disegno, sarà consegnata al R. Console di Singapore unitamente alla cassa di ferro che racchiuse il corpo esanime del compianto generale. Su una delle parti di questa cassa l'equipaggio del Maddaloni incise le parole: "G.le N.Bixio - 1873" e sull'altra parte vennero scritte qui a bordo le seguenti linee: "Questa cassa raccolse le spoglie mortali del generale Nino Bixio. Involate e violate da mani barbare, fu con grandi stenti e con sagrifizio di vite umane (durante le lunghe ricerche alcuni soldati olandesi morirono - ndr.) trovata assieme ai gloriosi avanzi dalle autorità Olandesi sulla costa di Atcheen. Queste preziose reliquie nazionali il 2 maggio 1877 vennero consegnate al Comandante del "R.Avviso Cristoforo Colombo" cogli onori militari e con grande dimostrazione di stima della popolazione di Batavia - Il 9 maggio ne ha preso consegna il R. Console di Singapore il quale ha condotto le pratiche per il recupero in seguito a vivo interesse mostrato dal R. Governo".
In effetti i resti mortali del generale Bixio vennero sbarcati in tale data con altra solenne cerimonia, dalla "Cristoforo Colombo" e consegnata al Console italiano di Singapore che provvide a farli pervenire a Genova ove il 29 settembre furono tumulati, con grandi onori, nel cimitero di Staglieno.
E la “Maddaloni”? Era arrivata nel porto di New Diep, in Olanda, verso la metà di aprile 1874 ed ivi messa all’asta dalla Società del Credito degli Armatori per recuperare i debiti che Bixio non era ancora riuscito a saldare.
Acquistata da una società britannica e ribattezzata “City of Castle” fu destinata proprio ad un servizio di linea regolare con l’Estremo Oriente procurando agli armatori inglesi proficui guadagni.
- - - - - - - - - - - - - -
Le sue idee avevano dunque trionfato: ma a sventolare sul pennone più alto della nave non era più il tricolore d’Italia issato fieramente dal generale Nino Bixio, ma l’”Union Jack” del Regno Unito d’Inghilterra.
Govanni Zannini
Un aspetto inesplorato nel dramma mussoliniano. CLARETTA, L'AMANTE PUNITA
Molti sono tuttora i misteri che aleggiano sulla morte di Benito Mussolini e di Clarice (detta Claretta) Petacci, e sui loro esecutori.
Me se l’oltraggio contro il cadavere dell’ex duce a Milano in Piazzale Loreto , tenuto conto delle sue storiche colpe, è comprensibile anche se in nessun modo, assolutamente, giustificabile, l’accanimento contro il cadavere della donna genera inquietanti interrogativi.
Esaminiamo anzitutto la vicenda della sua uccisione avvenuta il 28 aprile 1945.
Uno dei primi atti – forse il primo - emanati dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) quale rappresentante, nel territorio italiano occupato dai nazifascisti, del governo italiano guidato dal generale Badoglio trasferitosi dopo l’8 settembre 1943 a Brindisi (territorio italiano in quel momenti libero da occupanti stranieri) al seguito del re Vittorio Emanuele III, fu un “Decreto per l’amministrazione della giustizia”.
All’art. 5 esso prevedeva che “i membri del governo fascista ed i gerarchi fascisti colpevoli di aver contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, di aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del paese e di averlo condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e nei casi meno gravi con l’ergastolo”. Tale decreto faceva seguito all’”Ultimatum” emesso dallo stesso CLNAI il 19 aprile nel quale si affermava che “chi non si arrende sarà sterminato”.
Tale Decreto era però in contrasto con la clausola n .29 dell’armistizio lungo siglato a Malta da Eisenhower
e da Badoglio il 29 settembre 1943 affermante che “Benito Mussolini, i suoi principali associati fascisti, e tutte le persone sospette di aver commesso delitti di guerra o reati analoghi, i cui nomi si trovino sugli elenchi che verranno comunicati dalle Nazioni Unite e che ora o in avvenire si trovino in territorio controllata dal Governo Militare Alleato o dal Governo Italiano, saranno immediatamente arrestati e consegnati alle forze delle Nazioni Unite”.
Data tale situazione, s’ingaggiò una gara fra CLNAI e Angloamericani per mettere per primi le mani su Mussolini, per ucciderlo, il primo, per catturarlo e poi giudicarlo, i secondi, che già si erano messi in caccia dell’ex duce e che non volevano lasciarsi sfuggire il 2° criminale di guerra dopo Hitler.
Fu così che il “Comitato insurrezionale di Milano” - composto da Pertini, Valiani, Sereni e Longo – riunitosi alle ore 23 del giorno 27, per non perdere altro tempo, incaricarono Walter Audisio (Colonnello Valerio) e Aldo Lampredi (Guido) di procedere all’uccisione di Mussolini.
La versione prevalente del drammatico episodio (sulla cui verità i dubbi e le contestazioni sono stati, e sono, tuttora, accesi) è quella riferita dagli stessi giustizieri.
In base ad essa il “Colonnello Valerio”, dopo aver proclamato:”Per ordine del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano” avrebbe fatto fuoco su Mussolini - dopo una serie di inceppamenti delle armi usate per l’esecuzione - uccidendolo assieme all’amante che si sarebbe aggrappata a lui nel tentativo di fargli scudo con il suo corpo.
Emerge da quanto sopra che l’uccisione di Mussolini non avvenne a seguito di una specifica sentenza emanata da un organo giudicante, ma con generico riferimento all’art.5 del “Decreto per l’amministrazione della giustizia” del quale si è sopra parlato.
Ne deriva altresì che non essendo la Petacci né “membro del governo fascista”, né “gerarca fascista” - come recitava il “Decreto” – essa non avrebbe dovuto essere uccisa.
Consapevoli della fondatezza di tale eccezione, gli esecutori hanno allora fornito la versione che la donna sia stata colpita involontariamente a causa del suo gesto – innegabilmente generoso - che l’avrebbe posta sulla traiettoria dei proiettili destinati all’ex duce..
Versione che appare poco credibile perché, se veramente non si voleva uccidere la donna, non si comprende perché essa sia stata messa “al muro” assieme all’amante mentre si sarebbe dovuto costringerla a stargli lontano per evitare il verificarsi di quanto, secondo la versione del “Colonnello Valerio”, sarebbe poi avvenuto.
Oltre a ciò, anche se in effetti la donna si fosse posta dinanzi a Mussolini, si sarebbe dovuto allontanarla con la forza e solo dopo ciò aprire il fuoco su di lui.
Ma, lasciata l’oscura vicenda della sua uccisione, veniamo al vilipendio del corpo della Petaccci avvenuto sotto gli occhi di migliaia di persone e provata da documenti fotografici impressionanti che attesteranno per sempre questo episodio di barbarica follia, autentico attentato a quella civiltà italica della quale troppo spesso ci vantiamo.
Perché, dunque, lo scempio del cadavere della Petacci?.
Forse, per punirla di aver per anni donato il piacere ad un uomo responsabile di aver trascinato in guerra l’Italia e di averle causato lutti, rovine, e, alla fine, una bruciante sconfitta? Una specie di “chiamata di correo” dell’amante per le colpe commesse dall’amato?
Eppure, se di tal genere di colpe si volesse parlare, ben più grave sarebbe stata la responsabilità della moglie Rachele che per molto più tempo ha amato Mussolini dandogli cinque figli, condividendo – anche se, per la verità, si dice non sempre - le sue idee e vivendo accanto a lui una vicenda umana precipitata dalla gloria nella tragedia?
Ma non risulta che a donna Rachele, pur nei drammatici momenti della caduta del fascismo e della fine della guerra, siano state usate violenze fisiche.
Catturata dai partigiani all’indomani del 25 aprile 1945 con i figli minori Romano e Annamaria, fu consegnata agli alleati e, dopo essere stata in un campo di concentramento inglese a Terni, inviata al confino all’isola d’Ischia ove restò fino al 1957 per poi tornare indisturbata nella sua casa di Carpena, (comperata con i quattrini guadagnati da Mussolini all’”Avanti”) vicino a Forlì, ove rimase fino alla morte. Invece, il corpo della Petacci uccisa, seminudo, insanguinato, oltraggiato dalla folla nella maniera più vile, turpe ed oscena, ingiuriato, sputacchiato, viene alla fine appeso a testa in giù al traliccio del distributore di benzina di Piazzale Loreto a Milano ed esposta assieme a Mussolini e ad altri 5 gerarchi, alla vista della folla inferocita.
Fra le tante versioni date di quel tragico avvenimento, (e lo riferiamo con imbarazzo) vi è quella che un frate presente avrebbe provveduto a fissare con il cordone del suo saio la gonna sui fianchi del cadavere privo di indumento intimo (e ciò, se vero, aprirebbe la strada ad inquietanti, torbide supposizioni); mentre un’altra, priva di particolari scabrosi, riferisce che un sacerdote della comunità di don Orione, don Giuseppe Pollarolo, presente sul posto, prevedendo l’appendimento del cadavere della Petacci per i piedi, avrebbe provveduto a stringere con una spilla da balia i bordi della gonna indossata dalla povera donna per evitare una sconcia, macabra esposizione.
Quali motivi, dunque, possono aver scatenato tanto odio?
Condanna dell’adultera che ha intaccato il mito della famiglia allora ancora assai vivo?
Solidarietà con la moglie offesa dalla protervia dell’amante?
Invidia per gli agi goduti dalla Petacci grazie al rapporto amoroso con il potente?
Perché, dunque, due donne che ad uno stesso uomo avevano dato il loro amore, ebbero una sorte così diversa?
Perché la salvezza alla sposa e la morte all’amante?
Giovanni Zannini.
Me se l’oltraggio contro il cadavere dell’ex duce a Milano in Piazzale Loreto , tenuto conto delle sue storiche colpe, è comprensibile anche se in nessun modo, assolutamente, giustificabile, l’accanimento contro il cadavere della donna genera inquietanti interrogativi.
Esaminiamo anzitutto la vicenda della sua uccisione avvenuta il 28 aprile 1945.
Uno dei primi atti – forse il primo - emanati dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) quale rappresentante, nel territorio italiano occupato dai nazifascisti, del governo italiano guidato dal generale Badoglio trasferitosi dopo l’8 settembre 1943 a Brindisi (territorio italiano in quel momenti libero da occupanti stranieri) al seguito del re Vittorio Emanuele III, fu un “Decreto per l’amministrazione della giustizia”.
All’art. 5 esso prevedeva che “i membri del governo fascista ed i gerarchi fascisti colpevoli di aver contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, di aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del paese e di averlo condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e nei casi meno gravi con l’ergastolo”. Tale decreto faceva seguito all’”Ultimatum” emesso dallo stesso CLNAI il 19 aprile nel quale si affermava che “chi non si arrende sarà sterminato”.
Tale Decreto era però in contrasto con la clausola n .29 dell’armistizio lungo siglato a Malta da Eisenhower
e da Badoglio il 29 settembre 1943 affermante che “Benito Mussolini, i suoi principali associati fascisti, e tutte le persone sospette di aver commesso delitti di guerra o reati analoghi, i cui nomi si trovino sugli elenchi che verranno comunicati dalle Nazioni Unite e che ora o in avvenire si trovino in territorio controllata dal Governo Militare Alleato o dal Governo Italiano, saranno immediatamente arrestati e consegnati alle forze delle Nazioni Unite”.
Data tale situazione, s’ingaggiò una gara fra CLNAI e Angloamericani per mettere per primi le mani su Mussolini, per ucciderlo, il primo, per catturarlo e poi giudicarlo, i secondi, che già si erano messi in caccia dell’ex duce e che non volevano lasciarsi sfuggire il 2° criminale di guerra dopo Hitler.
Fu così che il “Comitato insurrezionale di Milano” - composto da Pertini, Valiani, Sereni e Longo – riunitosi alle ore 23 del giorno 27, per non perdere altro tempo, incaricarono Walter Audisio (Colonnello Valerio) e Aldo Lampredi (Guido) di procedere all’uccisione di Mussolini.
La versione prevalente del drammatico episodio (sulla cui verità i dubbi e le contestazioni sono stati, e sono, tuttora, accesi) è quella riferita dagli stessi giustizieri.
In base ad essa il “Colonnello Valerio”, dopo aver proclamato:”Per ordine del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano” avrebbe fatto fuoco su Mussolini - dopo una serie di inceppamenti delle armi usate per l’esecuzione - uccidendolo assieme all’amante che si sarebbe aggrappata a lui nel tentativo di fargli scudo con il suo corpo.
Emerge da quanto sopra che l’uccisione di Mussolini non avvenne a seguito di una specifica sentenza emanata da un organo giudicante, ma con generico riferimento all’art.5 del “Decreto per l’amministrazione della giustizia” del quale si è sopra parlato.
Ne deriva altresì che non essendo la Petacci né “membro del governo fascista”, né “gerarca fascista” - come recitava il “Decreto” – essa non avrebbe dovuto essere uccisa.
Consapevoli della fondatezza di tale eccezione, gli esecutori hanno allora fornito la versione che la donna sia stata colpita involontariamente a causa del suo gesto – innegabilmente generoso - che l’avrebbe posta sulla traiettoria dei proiettili destinati all’ex duce..
Versione che appare poco credibile perché, se veramente non si voleva uccidere la donna, non si comprende perché essa sia stata messa “al muro” assieme all’amante mentre si sarebbe dovuto costringerla a stargli lontano per evitare il verificarsi di quanto, secondo la versione del “Colonnello Valerio”, sarebbe poi avvenuto.
Oltre a ciò, anche se in effetti la donna si fosse posta dinanzi a Mussolini, si sarebbe dovuto allontanarla con la forza e solo dopo ciò aprire il fuoco su di lui.
Ma, lasciata l’oscura vicenda della sua uccisione, veniamo al vilipendio del corpo della Petaccci avvenuto sotto gli occhi di migliaia di persone e provata da documenti fotografici impressionanti che attesteranno per sempre questo episodio di barbarica follia, autentico attentato a quella civiltà italica della quale troppo spesso ci vantiamo.
Perché, dunque, lo scempio del cadavere della Petacci?.
Forse, per punirla di aver per anni donato il piacere ad un uomo responsabile di aver trascinato in guerra l’Italia e di averle causato lutti, rovine, e, alla fine, una bruciante sconfitta? Una specie di “chiamata di correo” dell’amante per le colpe commesse dall’amato?
Eppure, se di tal genere di colpe si volesse parlare, ben più grave sarebbe stata la responsabilità della moglie Rachele che per molto più tempo ha amato Mussolini dandogli cinque figli, condividendo – anche se, per la verità, si dice non sempre - le sue idee e vivendo accanto a lui una vicenda umana precipitata dalla gloria nella tragedia?
Ma non risulta che a donna Rachele, pur nei drammatici momenti della caduta del fascismo e della fine della guerra, siano state usate violenze fisiche.
Catturata dai partigiani all’indomani del 25 aprile 1945 con i figli minori Romano e Annamaria, fu consegnata agli alleati e, dopo essere stata in un campo di concentramento inglese a Terni, inviata al confino all’isola d’Ischia ove restò fino al 1957 per poi tornare indisturbata nella sua casa di Carpena, (comperata con i quattrini guadagnati da Mussolini all’”Avanti”) vicino a Forlì, ove rimase fino alla morte. Invece, il corpo della Petacci uccisa, seminudo, insanguinato, oltraggiato dalla folla nella maniera più vile, turpe ed oscena, ingiuriato, sputacchiato, viene alla fine appeso a testa in giù al traliccio del distributore di benzina di Piazzale Loreto a Milano ed esposta assieme a Mussolini e ad altri 5 gerarchi, alla vista della folla inferocita.
Fra le tante versioni date di quel tragico avvenimento, (e lo riferiamo con imbarazzo) vi è quella che un frate presente avrebbe provveduto a fissare con il cordone del suo saio la gonna sui fianchi del cadavere privo di indumento intimo (e ciò, se vero, aprirebbe la strada ad inquietanti, torbide supposizioni); mentre un’altra, priva di particolari scabrosi, riferisce che un sacerdote della comunità di don Orione, don Giuseppe Pollarolo, presente sul posto, prevedendo l’appendimento del cadavere della Petacci per i piedi, avrebbe provveduto a stringere con una spilla da balia i bordi della gonna indossata dalla povera donna per evitare una sconcia, macabra esposizione.
Quali motivi, dunque, possono aver scatenato tanto odio?
Condanna dell’adultera che ha intaccato il mito della famiglia allora ancora assai vivo?
Solidarietà con la moglie offesa dalla protervia dell’amante?
Invidia per gli agi goduti dalla Petacci grazie al rapporto amoroso con il potente?
Perché, dunque, due donne che ad uno stesso uomo avevano dato il loro amore, ebbero una sorte così diversa?
Perché la salvezza alla sposa e la morte all’amante?
Giovanni Zannini.
HEDDA, LA "FRAU GRAFIN" CHE FECE PIANGERE IL FUHER (nota: sulla A di "Grafin" va la dieresi)
Hedda, la figlia di Mussolini, nel suo libro di memorie “La mia testimonianza” (Rusconi Libri – 1975) descrive particolari della personalità di Hitler che francamente stupiscono.
L’ha incontrato più volte ed è dunque in grado di descrivere un uomo ben diverso da quello tristemente famoso, divenuto simbolo del male e aborrito nel mondo.
Non l’uomo freddo e glaciale, rivoluzionario spietato, oratore irruento e scatenato, ideologo farneticante, appassionato amante della Germania “caput mundi”, simbolo di violenza e di sopraffazione dei popoli, che siamo abituati a conoscere.
In privato, invece, apppare tranquillo, intelligente, colto, buon conversatore, cultore di arte, circondato da pochi ma scelti amici, che scherza e gioca con i figlioletti - che lo chiamano “zio” - dei suoi fedeli collaboratori, a suo agio nei salotti e nei ricevimenti che organizza volentieri, circondato da belle donne che sembrano infrangere la leggenda di innamorato solo della “sua” Germania – sola eccezione, “frau” Eva Braun -, amico degli animali.
Il suo stesso aspetto fisico, secondo Hedda, è interessante: elegante il portamento, calda la voce, perfino i famosi baffetti (solitamente oggetto di commenti salaci ed anche d’irrisione) gli attribuiscono un fascino insospettabile.
E’ ospite gentile e premuroso, che in tempi felici accompagna Hedda in una lieta gita in motoscafo sul lago descrivendone, da Cicerone esperto e competente, le molte bellezze.
E facile alla commozione.
Nel suo diario Goebbels ricorda che il 14 settembre 1943, in occasione dell’incontro alla “Tana del lupo” con Mussolini dopo la sua liberazione, “Hitler e Mussolini si sono abbracciati dopo la lunga separazione. E’ stato questo un esempio di fedeltà tra uomini e camerati che ha profondamente commosso”. (Anche se altri affermano che non di abbraccio si trattò, ma di una lunga stretta di mano particolarmente calorosa, con le mai che si sormontavano l’una sull’altra).
Fine agosto 1943. Il fatale 25 luglio è trascorso da un mese. Dove sia finito Mussolini non si sa. Ciano e la sua famiglia sono rimasti a Roma indisturbati, ma i tedeschi per evitare che capiti loro qualche guaio, li prelevano e li trasferiscono in Germania: con loro sorpresa perché, come sostiene la Ciano, salendo sull’aereo, gli avevano promesso di portarli in salvo in Spagna.
All’arrivo a Monaco sono trattati con ogni riguardo ed alloggiati, in gran segreto, poco lontano, in una magnifica villa a Oberallmannshausen, sul lago di Starnberg, messa a disposizione da Hitler.
Quindi, l’incontro con il Fhurer.
“Non appena seppe del nostro arrivo – scrive Hedda Ciano – egli mi invitò nel suo Quartier Generale (“La tana del Lupo – ndr.) nella Prussia orientale. Era ad aspettarmi sulla soglia della baracca di legno nascosta nella foresta. Mi strinse a lungo le mani CON GLI OCCHI PIENI DI LACRIME e mi introdusse subito nel salotto dove ci venne servito il tè. Le sue prime parole furono:”Perché vostro padre ha convocato il Gran Consiglio? Che bisogno c’era di fare una cosa simile? Che errore!” “Ma dov’è mio padre?” “Per vostro padre non abbiate paura. Sarà liberato. Non sappiamo ancora dove lo tengono prigioniero, ma l’informazione non potrà tardare. E allora, ve lo prometto, ricorrerò ad ogni mezzo per liberarlo. State tranquilla che ve lo restituirò sano e salvo, lui e tutta la vostra famiglia…”
E pure gentiluomo.
“ L’indomani - prosegue la figlia del duce - venne a porgermi gli auguri per il mio compleanno nel suo treno personale che aveva messo a disposizione mia e di mio fratello Vittorio, e mi offrì personalmente un mazzo di orchidee trovate chissà dove. E anche dopo che gli dissi delle cose che potrei definire infelici, ebbe, è vero, uno scatto d’ira, ma tutto finì li. Mentre stavamo conversando e il Fhurer mi spiegava che le forze dell’Asse avrebbero riportato la vittoria finale così come Federico II di Prussia l’aveva riportata alla fine della guerra dei 7 anni nonostante la coalizione che gli si opponeva, gli feci osservare, con tutta semplicità:” E’ vero, ma a quel tempo non esistevano né gli aerei né gli americani”. E poi soggiunsi:”Bisogna riconoscere che Churchill e Stalin sono in gamba. Credetemi, la guerra è ormai perduta e non rimane altro che la pace separata con la Russia”. Hitler si inalberò:” Nein, nein!”, gridò “qualunque cosa ma non tratterò mai con i russi, Frau Grafin (signora contessa)! Sarebbe come se mi chiedeste di mettere insieme il diavolo e l’acqua santa. Per i russi è la stessa cosa! Non può esserci pace con loro! “. Molte persone erano state giustiziate per molto meno sotto l’accusa di disfattismo. Tutti i presenti, fra i quali von Ribbentrop, Himmler e mio fratello erano sconvolti. Credo che se avessero potuto farmi sparire l’avrebbero fatto con gioia….Ma si dava il caso che io fossi la figlia di Mussolini e il Duce, anche se imprigionato, era ancora vivo e restava l’amico del Fhurer. Quindi non si poteva torcermi neppure un capello. “Non credo che con quei discorsi tu abbia accresciuto le tue possibilità di arrivare in Spagna con Galeazzo e i bambini - commentò ironico Vittorio quando Hitler se ne fu andato – in quanto a diplomazia sei un fenomeno!”.
Per la verità, Hedda Ciano toccò un argomento che von Ribbentrop aveva già affrontato con Hitler come emerge dalle memorie postume “Fra Londra e Mosca” ove l’ex ministro degli Esteri del Reich scrive:” …Dopo il tradimento del Governo Badoglio nel settembre 1943, intrapresi un nuovo e più energico tentativo.(Hitler) Si avvicinò con me ad una carta geografica e disegnò lui stesso una linea di demarcazione quale base per un’eventuale intesa con i russi. Quando gli chiesi pieni poteri , mi disse che voleva ripensarci fino alla mattina seguente. Ma il nuovo giorno non portò ad alcuna conclusione. Il Fuhrer mi disse che doveva studiare la questione con maggior attenzione. Rimasi molto deluso. Sentivo che erano all’opera forze che irrigidivano Hitler sempre di più nel suo atteggiamento di fronte ad un’intesa con Stalin. Allorchè Mussolini, dopo la sua liberazione, venne al Quartier Generale del Fuhrer, Hitler disse con mia grande sorpresa in sua presenza di voler intendersi con la Russia. Alla mia preghiera di darmi istruzioni non diede una risposta precisa, e già il giorno seguente respinse di nuovo ogni presa di contatto”.
Ma torniamo all’incontro fra Hitler ed Hedda Ciano, ed al loro colloquio durante il quale secondo Goebbels che era presente, la donna commise una “gaffe” ancor più grave quando chiese ad Hitler di cambiare in pesetas 6 milioni di lire che Ciano si era portato dall’Italia, giungendo ad offrire al Fuhrer la differenza nel tasso di scambio (circostanza peraltro negata dalla donna), ciò che lo irritò moltissimo.
E’ assai probabile che, dopo tale burrascoso colloquio, la stima e l’affetto di Hitler verso la “Frau Grafin” si siano dimolto attenuati.
Giovanni Zannini
L’ha incontrato più volte ed è dunque in grado di descrivere un uomo ben diverso da quello tristemente famoso, divenuto simbolo del male e aborrito nel mondo.
Non l’uomo freddo e glaciale, rivoluzionario spietato, oratore irruento e scatenato, ideologo farneticante, appassionato amante della Germania “caput mundi”, simbolo di violenza e di sopraffazione dei popoli, che siamo abituati a conoscere.
In privato, invece, apppare tranquillo, intelligente, colto, buon conversatore, cultore di arte, circondato da pochi ma scelti amici, che scherza e gioca con i figlioletti - che lo chiamano “zio” - dei suoi fedeli collaboratori, a suo agio nei salotti e nei ricevimenti che organizza volentieri, circondato da belle donne che sembrano infrangere la leggenda di innamorato solo della “sua” Germania – sola eccezione, “frau” Eva Braun -, amico degli animali.
Il suo stesso aspetto fisico, secondo Hedda, è interessante: elegante il portamento, calda la voce, perfino i famosi baffetti (solitamente oggetto di commenti salaci ed anche d’irrisione) gli attribuiscono un fascino insospettabile.
E’ ospite gentile e premuroso, che in tempi felici accompagna Hedda in una lieta gita in motoscafo sul lago descrivendone, da Cicerone esperto e competente, le molte bellezze.
E facile alla commozione.
Nel suo diario Goebbels ricorda che il 14 settembre 1943, in occasione dell’incontro alla “Tana del lupo” con Mussolini dopo la sua liberazione, “Hitler e Mussolini si sono abbracciati dopo la lunga separazione. E’ stato questo un esempio di fedeltà tra uomini e camerati che ha profondamente commosso”. (Anche se altri affermano che non di abbraccio si trattò, ma di una lunga stretta di mano particolarmente calorosa, con le mai che si sormontavano l’una sull’altra).
Fine agosto 1943. Il fatale 25 luglio è trascorso da un mese. Dove sia finito Mussolini non si sa. Ciano e la sua famiglia sono rimasti a Roma indisturbati, ma i tedeschi per evitare che capiti loro qualche guaio, li prelevano e li trasferiscono in Germania: con loro sorpresa perché, come sostiene la Ciano, salendo sull’aereo, gli avevano promesso di portarli in salvo in Spagna.
All’arrivo a Monaco sono trattati con ogni riguardo ed alloggiati, in gran segreto, poco lontano, in una magnifica villa a Oberallmannshausen, sul lago di Starnberg, messa a disposizione da Hitler.
Quindi, l’incontro con il Fhurer.
“Non appena seppe del nostro arrivo – scrive Hedda Ciano – egli mi invitò nel suo Quartier Generale (“La tana del Lupo – ndr.) nella Prussia orientale. Era ad aspettarmi sulla soglia della baracca di legno nascosta nella foresta. Mi strinse a lungo le mani CON GLI OCCHI PIENI DI LACRIME e mi introdusse subito nel salotto dove ci venne servito il tè. Le sue prime parole furono:”Perché vostro padre ha convocato il Gran Consiglio? Che bisogno c’era di fare una cosa simile? Che errore!” “Ma dov’è mio padre?” “Per vostro padre non abbiate paura. Sarà liberato. Non sappiamo ancora dove lo tengono prigioniero, ma l’informazione non potrà tardare. E allora, ve lo prometto, ricorrerò ad ogni mezzo per liberarlo. State tranquilla che ve lo restituirò sano e salvo, lui e tutta la vostra famiglia…”
E pure gentiluomo.
“ L’indomani - prosegue la figlia del duce - venne a porgermi gli auguri per il mio compleanno nel suo treno personale che aveva messo a disposizione mia e di mio fratello Vittorio, e mi offrì personalmente un mazzo di orchidee trovate chissà dove. E anche dopo che gli dissi delle cose che potrei definire infelici, ebbe, è vero, uno scatto d’ira, ma tutto finì li. Mentre stavamo conversando e il Fhurer mi spiegava che le forze dell’Asse avrebbero riportato la vittoria finale così come Federico II di Prussia l’aveva riportata alla fine della guerra dei 7 anni nonostante la coalizione che gli si opponeva, gli feci osservare, con tutta semplicità:” E’ vero, ma a quel tempo non esistevano né gli aerei né gli americani”. E poi soggiunsi:”Bisogna riconoscere che Churchill e Stalin sono in gamba. Credetemi, la guerra è ormai perduta e non rimane altro che la pace separata con la Russia”. Hitler si inalberò:” Nein, nein!”, gridò “qualunque cosa ma non tratterò mai con i russi, Frau Grafin (signora contessa)! Sarebbe come se mi chiedeste di mettere insieme il diavolo e l’acqua santa. Per i russi è la stessa cosa! Non può esserci pace con loro! “. Molte persone erano state giustiziate per molto meno sotto l’accusa di disfattismo. Tutti i presenti, fra i quali von Ribbentrop, Himmler e mio fratello erano sconvolti. Credo che se avessero potuto farmi sparire l’avrebbero fatto con gioia….Ma si dava il caso che io fossi la figlia di Mussolini e il Duce, anche se imprigionato, era ancora vivo e restava l’amico del Fhurer. Quindi non si poteva torcermi neppure un capello. “Non credo che con quei discorsi tu abbia accresciuto le tue possibilità di arrivare in Spagna con Galeazzo e i bambini - commentò ironico Vittorio quando Hitler se ne fu andato – in quanto a diplomazia sei un fenomeno!”.
Per la verità, Hedda Ciano toccò un argomento che von Ribbentrop aveva già affrontato con Hitler come emerge dalle memorie postume “Fra Londra e Mosca” ove l’ex ministro degli Esteri del Reich scrive:” …Dopo il tradimento del Governo Badoglio nel settembre 1943, intrapresi un nuovo e più energico tentativo.(Hitler) Si avvicinò con me ad una carta geografica e disegnò lui stesso una linea di demarcazione quale base per un’eventuale intesa con i russi. Quando gli chiesi pieni poteri , mi disse che voleva ripensarci fino alla mattina seguente. Ma il nuovo giorno non portò ad alcuna conclusione. Il Fuhrer mi disse che doveva studiare la questione con maggior attenzione. Rimasi molto deluso. Sentivo che erano all’opera forze che irrigidivano Hitler sempre di più nel suo atteggiamento di fronte ad un’intesa con Stalin. Allorchè Mussolini, dopo la sua liberazione, venne al Quartier Generale del Fuhrer, Hitler disse con mia grande sorpresa in sua presenza di voler intendersi con la Russia. Alla mia preghiera di darmi istruzioni non diede una risposta precisa, e già il giorno seguente respinse di nuovo ogni presa di contatto”.
Ma torniamo all’incontro fra Hitler ed Hedda Ciano, ed al loro colloquio durante il quale secondo Goebbels che era presente, la donna commise una “gaffe” ancor più grave quando chiese ad Hitler di cambiare in pesetas 6 milioni di lire che Ciano si era portato dall’Italia, giungendo ad offrire al Fuhrer la differenza nel tasso di scambio (circostanza peraltro negata dalla donna), ciò che lo irritò moltissimo.
E’ assai probabile che, dopo tale burrascoso colloquio, la stima e l’affetto di Hitler verso la “Frau Grafin” si siano dimolto attenuati.
Giovanni Zannini