Se
taluno si volesse dilettare a stilare una classifica per stabilire
quale sia stato il dibattito più importante per contenuto e
drammaticità nella storia parlamentare italiana, quello avvenuto il
28 aprile 1861 meriterebbe, se non il più alto, certamente uno dei
gradini più alti.
Si
tratta dello scontro fra Garibaldi e Cavour innescato dalla sorte di
quell’”esercito meridionale” composto tutto da volontari che il
Generale si era costruito per liberare l’Italia del Sud dai
Borboni e che voleva fossero inseriti nell’esercito regolare al che
i suoi capi si opponevano, timorosi che quei militari improvvisati
ne inquinassero la disciplina e la professionalità.
Grandi
le differenze fra i due principali artefici del Risorgimento
italiano.
Garibaldi
gran combattente, coraggioso, impulsivo, lineare determinato a
raggiungere ad ogni costo gli obbiettivi prefissati senza troppo
preoccuparsi delle conseguenze che ne potessero derivare senza
ricorrere ad artifizi e raggiri, imbattibile sui campi di battaglia,
un po’ pasticcione nelle aule parlamentari, un “guerriero
impolitico” come taluno lo definisce.
Cavour gran patriota, che si batte anch’egli per l’unità
d’Italia non con la spada ma con la politica di cui è maestro:
manovriero, cauto, prudente, sottile, medita ogni sua mossa
valutandone e prevedendone i rischi, disposto ad usare - come
scrive Maurizio Palèologue nel suo “Cavour” - la violenza, la
frode, la perfidia, la ciarlataneria, la subornazione, l’impostura,
convinto che, come Machiavelli dice, “ Uno spirito saggio non
condannerà mai un uomo per gli atti d’eccezione cui ha dovuto far
ricorso nell’interesse supremo della patria”.
L’uno
che morirà a 75 anni dopo una vita di violenze fisiche, di lotte,
di combattimenti, di fatiche inenarrabili; l’altro che finirà
cinquantenne il 6 giugno 1861 stroncato dalle ansie, dalle
preoccupazioni, dalle paure – oggi diremmo dallo “stress” –
che gli procurano i suoi armeggi e le sue manovre arrischiate, forse
anche per le conseguenze di quel famoso scontro. E’ egli stesso,
infatti, a confidare in maggio ad un amico di non sentirsi affatto
bene e che “dopo quella terribile disputa con Garibaldi non riesco
più a rimettermi”.
Ed
eccoli, uno contro l’altro, in Parlamento.
Rievoca
l’avvenimento sulla “Illustrazione Italiana” del 27-5-1877,
con un tono piuttosto ampolloso, classicamente ottocentesco, quel tal
“Doctor Veritas” sotto il cui pseudonimo si celava Leone Fortis –
vedasi su questo stesso “blog” il post “Leone Fortis, il
Dr.Veritas padovano” - brillante giornalista che nella rubrica
tenuta per molti anni sulla rivista dell’Editore Treves si
occupava di cultura, di politica e di attualità, anche mondana.
Con questa sua “Conversazione” (così intitolava i suoi articoli)
egli trasmette realisticamente al lettore la drammaticità
dell’evento definito “un cozzo tremendo, un urto” che faceva
temere “un grande sfasciamento, la rovina irreparabile di tutto
ciò che si era amato, sognato, voluto in mezzo secolo di affetti
terribili, di sogni grandiosi, di volontà sublimi e consacrate nel
sangue”.
Insomma,
il percorso dell’unità d’Italia era in pericolo.
Garibaldi,
eletto a Napoli nelle elezioni del gennaio 1861 pur non avendo posto
la sua candidatura, va in Parlamento a perorare la causa dei
volontari del suo “esercito meridionale” la cui sorte, conclusa
l’avventura dei Mille, è incerta.
Ed ha
inizio la disfida.
Il
Nizzardo, dal più alto banco della sinistra, “…colla camicia
rossa, il mantello grigio – il famoso “poncho” sudamericano -
un po’ teatrale, solenne, imponente” prende la parola. Il suo
discorso non è particolarmente interessante, anzi, noioso, tratta
“di scarpe, di galloni, di uniformi” e qualcuno dei suoi
avversari sogghigna di fronte a quell’intervento così poco
brillante benché supportato da un suo fido, tal Zupetta, che
“agitava febbrilmente nelle mani alcuni foglietti rettangolari di
carta e che li passava a lui ad uno ad uno”. Ma ad un certo
momento Garibaldi ha un sussulto, la voce prima monotona “si era
fatta tonante” allorchè, ignorando il suggeritore, affronta, a
braccio, l’argomento che da tempo covava in petto e che
improvvisamente esplode: il rancore per la cessione di Nizza – sua
città natale – e della Savoia alla Francia, il premio barattato
da Cavour quale compenso per l’aiuto prestato dall’Imperatore
Napoleone III nella guerra del 1859 che fruttò al Piemonte
l’annessione della Lombardia.
Con il
dito proteso verso il banco ministeriale ove sedeva Cavour,
““pronunciò poche parole ma che avevano il lugubre fragore di
una mina:”Voi volete la guerra fratricida”” ed affermò che mai
stringerà la mano dell’infame rigattiere che ha fatto un ignobile
traffico della sua città natale.
Cavour
(quasi presago della tempesta), lo aveva ascoltato, nervoso e,
irrequieto: “giocherellava con il tagliacarte d’avorio, apriva e
chiudeva un libro che aveva davanti, si agitava sulla sua poltrona
come se fosse ovattata di spine, “tamburinava” (sic) febbrilmente
con le dita della mano sinistra sul tavolo, di tanto in tanto si
passava la destra sulla fronte tergendone col bianco fazzoletto il
sudore”.
Sentite
quelle parole, “a Cavour tutto il sangue rifluì alla testa, il suo
volto si fece di bragia, gli occhi fiammeggiavano…Nell’emiciclo
erano scesi molti deputati apostrofandosi con parole irritate. Due
gruppi si formarono subito, l’uno attorno a Cavour, l’altro sui
banchi di sinistra accanto a Garibaldi”. Dopo una diecina di minuti
la bagarre si placa e Garibaldi, fuori di sé, grida, di nuovo: ”Si,
la guerra fratricida”.
“Fu
il finimondo…Cavour s’era fatto terribile anche lui…battè col
pugno sul banco ministeriale facendo sussultare le carte, i libri del
tavolo e gli animi dell’Assemblea”. Cairoli si slanciò al posto
di Garibaldi, Bixio “livido e due grosse lagrime gli irrigavano le
guance abbronzite (sic) si precipitò giù dagli alti scranni della
sinistra e afferrò nelle sue mani le due mani di Cavour
parlandogli rapido, concitato, affannoso…”.
E qui
stupisce, favorevolmente, il comportamento di quel Nino Bixio,
violento, sanguigno e spietato combattente in guerra che, eletto in
Parlamento, si prodiga come conciliatore cercando di attenuare le
dure parole del suo generale.
Infatti,
tutti, si erano accorti, con sgomento, che “il guanto della guerra
civile era stato gettato in mezzo all’emiciclo. Guai fosse stato
raccolto! Cavour si slanciò per afferrarlo. Fu un lampo e si
arretrò. Chi teneva lo sguardo su di lui potè notare il trabalzo
dell’impeto primo e la forza e lo sforzo della riflessione
poderosa, sublime, che lo frenò”. Si lascia condurre fuori
dall’aula da alcuni amici, fra cui lo stesso Bixio, e poco dopo
rientra “trasfigurato: il volto, prima rovente, s’era fatto
pallido, la ruga della fronte era più profonda”. Prende la parola
con voce ferma e accento vibrato:” Io comprendo e rispetto il
dolore che rende sì amare le parole del generale Garibaldi. Egli non
sa perdonarmi di aver segnato il trattato che dà la sua città
nativa al nostro alleato di Magenta e di Solferino. Dal dolore che io
provai, misuro il suo. Se io fossi in lui, sentirei come lui. Al mio
posto, ho la coscienza di aver compiuto un grande e tremendo dovere”.
Dopo
di che Garibaldi replica brevemente come chi ha fretta di finirla con
una situazione penosa e si allontana scortato dai suoi fidi.
A
questo punto il cronista non esita ad esprimere il suo giudizio sul
comportamento dei due contendenti concludendo che “Cavour fu in
quel giorno assai più grande di Garibaldi. L’onore della giornata
fu suo, giornata campale contro sè stesso sostenuta e vinta in
nome dell’Italia e per l’Italia”.
Pochi
giorni dopo la drammatica seduta secondando un augusto desiderio vi
fu, in una sala del palazzo reale, un abboccamento - che Cavour
descrive in una sua lettera “cortese senza essere affettuoso” -
fra i due autori del drammatico scontro. Egli espone la condotta che
il governo avrebbe tenuto nei riguardi dell’ Austria e della
Francia. Garibaldi dichiara di accettare quel programma impegnandosi
a non contrariare il procedere del governo, e chiede “che si
facesse qualche cosa per l’esercito meridionale” al che l’altro
non fa alcuna promessa ma dichiara che “ mi sarei occupato per
cercare un mezzo per assicurare più completamente la sorte dei suoi
uffiziali”. Alla fine, scrive sempre Cavour, “noi ci siamo
separati se non amici, almeno senza nessuna irritazione”.
Ed il
Dr.Veritas così conclude la sua “Conversazione”
sull’Illustrazione Italiana: ”Certo, in quel giorno Garibaldi si
sentì più sconfitto che non lo si sentisse poi ad Aspromonte ed a
Mentana ma, come ad Aspromonte e poi a Mentana non si sentì
umiliato dalla sconfitta perché chi vinceva era sempre la patria”.
Padova
1-10-2019 Giovanni Zannini