martedì 14 novembre 2017

TRACCE NEL MONDO DI PRIGIONIERI DI GUERRA ITALIANI

Alcuni prigionieri di guerra italiani nei campi di detenzione in Inghilterra e negli Stati uniti hanno lasciato traccia del loro forzato soggiorno con chiese da loro costruite tuttora esistenti.
Prova evidente di come, in determinate situazioni drammatiche, l'uomo, per alleviate le prove cui è sottoposto, trovi conforto nella spiritualità e trovi rifugio nella religione.
Il primo caso è costituito da una cappella esistente nell'isola di Lamb Holm, nell'arcipelago delle Orcadi, a nord della Scozia, che costituisce una meta molto pubblicizzata specie per i turisti delle crocere che fanno tappa nel vicino porto di Kirkwall.
Essa fu costruita nel 1943 da un gruppo di militari italiani catturati dagli inglesi in Africa settentrionale e smistati nel Campo 60 sulla piccola isola delle Orcadi.
I prigionieri furono utilizzati per costruire le “Churchill Barriers”, una serie di dighe (oggi servono come comode strade di collegamente fra le isole dell'arcipelago) destinate a sbarrare gli accessi alla base navale della “Home Fleet” nella baia di Scapa Flow dopo che era stata violata dall'audace incursione di un sommergibile tedesco che aveva affondato la corazzata “HMS Royal Oak” con 800 membri del suo equipaggio.
Nel poco tempo libero lasciato dal lavoro, gli italiani guidati da Domenico Ciocchetti, un pittore di Moena, riuscirono a costruire, grazie alla benevolenza del comandante il campo e con l'attiva collaborazione del Cappellano Militare padre Giacobazzi, la Cappella, impegnandosi, con genialità tutta italiana, ad utilizzare il materiale di scarto per la costruzione delle barriere.
Il risultato fu molto felice, e la piccola costruzione abbellita dalle pitture del Ciocchetti, è tuttora in piedi, perfettamente accudita da un comitato che mantiene tuttora cordiali contatti con Moena, patria del generoso valente suo figlio, e ammirata da più di centomila visitatori ogni anno.

Altra traccia lasciata da prigionieri italiani all'estero è costituita da una chiesa costruita negli Stati Uniti nel campo di prigionia di Letterkenny presso Chammersburg in Pennsylvania che ospitò parte dei 51.000 militari italiani fatti prigionieri dagli inglesi nel 1943 in Africa settentrionale.
Ma allo scopo di liberarsi delle migliaia di prigionieri che intasavano le linee alleate creando difficoltà alle manovre militari in atto – problema non nuovo ed impellente per gli alti comandi - essi li cedettero agli americani che li trasferirono negli Stati Unititi ove quanti accettarono – la maggioranza - di “cooperare” con le autorità americane furono sottoposti ad un regime detentivo molto umanitario.
Il prigioniero Aldo Lorenzi, bersagliere, nativo di Mozzecane in provincia di Verona, rilevata la mancanza nel campo di un luogo ove i prigionieri potessero coltivare il proprio desiderio di spiritualità, ottenne il permesso di costruire una chiesa.
Con materiale di recupero scovato ovunque con fantasia del tutto latina, una trentina di prigionieri, muratori e falegnami, riuscirono a costruire nell'incredibie tempo di 50 giorni (così si legge nelle sue memorie) di entusiastico lavoro “una stupenda chiesa in puro stile italiano”.
Benedetta da mons. Amleto Cicognani – alto rappresentante, all'epoca, del Vaticano negli USA – che vi celebrò la prima Messa, fu denominata “Chiesa della Pace” per celebrare la fine della guerra in Europa, ed è entrata nel patrimonio storico della II Guerra Mondiale negli USA.

Padova 14.11.2017                                                                          Giovanni Zannini

Le notizie sulla chiesa di Letterkenny provengono dalle ricerche di Aldo Ramazzotti citata da un
articolo di Giovanni Rosa sul Corriere della Sera dello scorso 16 aprile, e del prof.Flavio Giovanni Conti storico ed autore di libri sui prigionieri di guerra italiani negli Stati Uniti.


mercoledì 8 novembre 2017

EL BAU'CO - Racconto

Un mattino della primavera 1945 era arrivata una compagnia di alpenjager tedeschi in ritirata. Grande lo spavento delle donne e dei vecchi, gli unici rimasti in paese: gli altri, i giovani, i “renitenti alla leva”, alla coscrizione obbligatoria emanata dalla Repubblica Sociale di Mussolini, rifugiati nella montagna circostante con i partigiani.
Il comandante, un capitano, si era installato con gli ufficiali nella “Trattoria con alloggio al Bersagliere”, la truppa si era attendata nella radura circostante il paese.
Tutta gente, sia il comandante che i suoi uomini, stanchi di violenza e di lotta, desiderosa solo di una breve pausa prima di riprendere il cammino verso un futuro che si faceva ogni giorno più oscuro.
Così la giornata era trascorsa tranquilla, i soldati ne avevano approfittato per lavare se stessi ed i loro panni nel torrentello che scorreva vicino al paese e vi fu anche qualche donna che offrì loro un po' di pane fresco o un bicchiere di vino, mica per “intelligenza” col nemico, che era sempre tale, ma per pietà per qualcuno di quei ragazzi che di anni potevano averne diciotto o poco di più, e che erano anche loro figli di mamma.
La notte passa senza intoppi, ma l'indomani è la tragedia.
Nel bosco hanno trovato un giovane tedesco con la testa fracassata da una violenta legnata: si era evidentemente allontanato per le sue necessità fisiologiche, ed ora giaceva là, in un mare di sangue, con i pantaloni ancora abbassati.
E come in uno spettacolo dalle tinte fosche, la scena muta ed è il trionfo della vendetta.
Il capitano, che sotto una maschera di freddezza, cova l'odio, emette l'ordinanza:” Un uomo dell'esercito tedesco, solo ed indifeso è stato ucciso a tradimento. Il colpevole sarà passato per le armi. Se nessuno si presenterà entro 24 ore, 10 uomini saranno fucilati e il paese incendiato”.
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Nella casera dei Segato, sulla montagna poco sopra il paese, dov'è un piccolo gruppo di partigiani c'è il finimondo.
“Ma chi è quel mona che ha combinato sto disastro” urla Jaco, studente del quarto anno di legge, che per essere “studiato”, è il capo, “bisognava aiutarli ad andarsene fuori dei piedi, questi maledetti tedeschi, e adesso, invece, li abbiamo fermati e ci ammazzano. Ecco il guadagno di aver fatto fuori un poverocristo che non desiderava altro che tornarsene a casa sua!”
E Meno, vaccaro:” Se quello salta fuori, prima che i tedeschi lo sparino, lo copo mi”.
Tutti parlano, ognuno dice la sua, la confusione è massima.
“Basta!” urla allora Jaco, “qui il tempo passa e bisogna prendere una decisione. Se il colpevole è tra noi, se è un uomo, si faccia avanti e poi si presenti ai tedeschi”.
E' il gelo: alla confusione è subentrato un silenzio irreale. Tutti si guardano l'un l'altro, con sospetto.
Nessuno si muove.
Il silenzio lungo, interminabile, è alla fine rotto da Jaco:” Allora tra noi c'è un vigliacco. Ma adesso, cosa facciamo? Lasciamo morire i nostri padri e i nostri nonni? Facciamo bruciare le nostre case?”.
La bagarre riprende: tutti dicono la loro,ma non se ne cava nulla. E il tempo passa.
Si alza il Cecon, sensale di dubbia fama, perchè alcuni ricordavano , fra l'altro, di quella volta che aveva fatto comperare al Nane una vacca garantendo che era “sana de fià” mentre non lo era affatto, e il mese dopo morì: ”Siamo in guerra” dice “ La guerra cancella la differenza fra il bene e il male. Quella che in pace è una cattiva azione, in guerra può diventar buona. Occorre scegliere il male minore “.
“E allora”, lo sollecita Jaco, “cosa vuoi dire? Qui ci vogliono proposte, non filosofia”. ,
Il Cecon esita, poi prende coraggio e sbotta:” Ghe saria el “Baùco...”.

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Era lo scemo del paese. Figlio senza padre, era stato allevato dalla madre con grandi sacrifici ma aveva ben presto manifestato un deficit intellettivo dinanzi al quale, in quei tempi tristi, non c'era che arrendersi. Era cresciuto sano di corpo, ben sviluppato, ma non ci stava con la testa. La sua malattia si aggravò con la perdita della madre che lo lasciò solo al mondo, affidato solo alla pietà dei paesani. Chi gli dava un piatto di minestra, chi gli lavava i panni, chi, quando faceva freddo, lo faceva dormire in una cuccia nel caldo della stalla, chi gli dava ogni tanto una bella strigliata perchè lui non si lavava neppure la faccia. Con il passare del tempo, un po' per la vitaccia che conduceva, un po' perchè, probabilmente, quel padre che se l'era data a gambe dopo aver ingravidato la ragazza, non doveva essere stato propriamente un gentiluomo, aveva assunto un aspetto poco raccomandabile, e la faccia coperta da una barba nera, lunga e disordinata, non prometteva nulla di buono. Ma non faceva male a una mosca. Poteva capitare, ad esempio, di trovartelo davanti, in strada, a pretendere, con aria minacciosa, “dame do schei”, ma se l'altro, che lo conosceva, gli diceva, bonario, “va là, Bauco, cori!”, lui se ne andava via tranquillamente, con la coda tra le gambe, perchè era uno scemo obbediente.
Ma chi non lo conosceva, con la faccia che aveva, avrebbe potuto prender paura.
Obbediente, ma anche troppo, perchè talora dei ragazzi senza cervello e senza cuore gli dicevano di fare delle cose come, ad esempio, la pipì sulla porta di qualche negozio o sollevare le gonne a qualche anziana signora, che gli rompeva sulla testa l'ombrellino.
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A quelle parole, nella casera ripiomba il silenzio. Prosegue il Cecon, che ha preso coraggio: ”Si, mandiamo il Baùco dai tedeschi, e facciamogli dire che è stato lui. Purtroppo, nella drammatica situazione in cui ci troviamo, dobbiamo fare una scelta: vale più l'esistenza di uno che non capisce niente, che non serve a nulla, o quella di 10 uomini che il cervello ce l'hanno, e il rischio delle nostre case in fiamme?”.
Il chiasso riprende:”No, è una vigliaccata”, “No, è come se lo ammazzassimo noi: non ci sto”, “No, non merita di essere ammazzato come un cane”, “No, non ha mai fatto male a nessuno”, “Se lo fanno fuori, ce l'avremo sulla coscienza per tutta la vita”.
Ma, lentamente, il dubbio, la paura, l'interesse, l'egoismo, l'attaccamento alla vita, prendono piede:
certo, è una cosa vile, ma è il male minore, e allora....
Jaco, il capo, taglia corto:” Votiamo e ognuno si prenda le sue responsabilità. Chi vota SI, manda il Baùco a farsi ammazzare, chi NO, lo salva”.
E ha inizio la conta, altalenante: si giunge a 15 SI e 15 NO. I votanti sono 31, quindi a decidere sulla vita del Baùco sarà l'ultimo voto, quello del Cecon, che, senza esitare, dice SI.
Quelli del NO protestano, afferrano lo sten e lo puntano minacciosamente verso gli altri, ma Jaco li ferma: è la maggioranza, ragazzi, c'è poco da protestare.
E va bene, si arrendono, ma loro il Bauco non lo manderanno mai al macello. D'accordo, dice il Cecco, ci penso io.
Scrive su di un pezzo di carta:” Il tedesco l'ho ammazzato io”, ci fa sotto uno sgorbio, lo mette in una busta, la chiude, e la consegna alla Marietta, una donna sulla cinquantina che vive con loro e fa la cuoca. Scenda al paese, gli dice il Cecon, cerchi il Baùco, e gli consegni la busta, che la porti ai tedeschi, al “Bersagliere". Gli dica che gli faranno un regalo se, ogni volta che si rivolgeranno a lui, dirà sempre si, si e solo si.
La Marietta lascia la casera e scende velocemente verso il paese.
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Le sentinelle davanti al “Bersagliere” che verso sera, fra il lusco e il brusco, vedono avvicinarsi quel brutto ceffo che non si ferma all' “alt!”, manca poco gli sparino senza tanti complimenti, ma siccome quello si agita e sventola nell'aria una busta che sembra una bandiera bianca, ci ripensano e lo portano dal comandante.
“La faccia da farabutto ce l'ha tutta” pensa il capitano, seduto ad un tavolino con altri due ufficiali e l'interprete, dopo aver letto il messaggio. Ma l'altro, che gli sta davanti, in piedi, è calmo, tranquillo, non manifesta alcun timore, ed anzi continua stranamente ad avanzare il palmo aperto della mano verso di lui, come se si aspettasse di ricevere qualcosa.
Il comandante dice all'interprete di chiedergli se è stato lui ad ammazzare il soldato nel bosco. “Si, si, si” risponde l'interrogato, proprio come gli aveva insegnato la Marietta.
Perchè lo ha fatto? Odia i tedeschi? “Si, si,si”.
E' amico dei partigiani? “Si, si, si”.
Sono stati loro a dargli l'ordine? “Si, si,si”.
A questo punto nell'ufficiale matura il dubbio: costui fa lo scemo, o lo è? Il militare appare freddo, ma la sua mente è in tumulto. Quello, se è colpevole, va punito; ma in caso contrario? Se è un disgraziato che si assume una colpa che non ha commesso? E se , come è evidente, è addirittura, un folle?
Alla fine, la soluzione che mette a posto la sua coscienza di soldato e di uomo. La confessione c'è, pensa, spontanea, nessuno gli ha fatto violenza, e non è il caso di indagare se è matto o no. Ci mancherebbe che, nei guai in cui ci troviamo, ci mettessimo a far perizie psichiatriche. Perciò quest'uomo lo devo fucilare perchè, se lo lascio libero, dal momento che nessun altro si è presentato, devo, come detto nell'ordinanza – e quando un tedesco dice una cosa, solo il Padreterno, la può cambiare - fucilare 10 uomini e poi mettermi a dar fuoco alle case, che non è affatto un bel divertimento. Perciò il male minore è di farlo fuori, andarsene al più presto da questo maledetto paese, e non pensarci più”.
Rieccolo, il “male minore”, che accomuna tedeschi e partigiani uniti, inconsciamente, da una logica crudele ma, in quel momento, ineluttabile.

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Il mattino dopo, alle 5, prendono il Baùco e lo legano a un palo mentre lui continua a dire “Si, si, si” e avanza la mano per avere il regalo. Il plotone di esecuzione spara e subito dopo l'intera compagnia, con la macchina del comandante in testa, in un rombo di motori di autocarri e di motocarrozzette che alzano un gran polverone, si mette velocemente in moto senza nemmeno badare se il Baùco che, legato al palo per la cintola, penzola in avanti, sia morto del tutto.

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Ma il tedesco, chi l'aveva ammazzato?
Non si è mai saputo, ma in paese gira voce che il Cescon , in punto di morte, abbia confessato al prete - che forse qualche mezza parola se l'era lasciata scappare – che ad accoppare il tedesco era stato lui.

Nota: Bau'co in dialetto veneto indica persona sciocca e talora ritardata intellettualmente

Padova 31 ottobre 2017                                                                                 Giovanni Zannini