L’ILLUSTRAZIONE ITALIANA, la storica rivista settimanale
edita nell’800 dai F.lli Treves di
Milano dava nel numero dell’8 gennaio 1877 la notizia della partenza del
“R.Avviso-rapido CRISTOFORO COLOMBO” per un viaggio attorno al mondo avente evidenti scopi
promozionali. “La nobile missione” si legge infatti nell’articolo, era “ di far conoscere, rispettare ed amare il
vessillo italiano anche nei lidi più
remoti”.
Dopo il Risorgimento, l’Italia unita andava,
simbolicamente, incontro al mondo.
La nave era stata varata il 17 settembre 1875 nel
Regio Arsenale di Venezia e costituiva all’epoca il meglio
della cantieristica italiana per la sua categoria.
Lunga m.75,72 e larga m.11,30, costruita con sistema
misto (legno e metallo), l’apparato motore costruito dalla ditta
“Penn and Sons” di Greenwich le imprimeva una velocità massima di 17 miglia, era provvista di circa 500 tonnellate di carbone che le assicuravano
un’autonomia da 2100 a 4000 miglia a seconda della velocità. Era armata con 5 pezzi del calibro di 12 centimetri e con 2 mitragliere da 31 colpi ciascuna; per
il salvataggio, 6 lance e due piccole
barche a vapore. Massimo il conforto per il comandante e gli ufficiali (ma del
resto dell’equipaggio non si parla).
Il lungo itinerario prevedeva di raggiungere il Giappone dopo aver toccato Brindisi, il Pireo, l’Egitto, l’India, la
Birmania, la penisola di Malacca e la Cina . Quindi la Polinesia, l’Australia e poi, attraversato il
Pacifico, San Francisco negli Stati Uniti. Da lì, posta
la prua verso sud, si costeggiano le due Americhe fino allo stretto di
Magellano superato il quale, risalendo le coste americane dell’Atlantico, la nave arriverà a Filadelfia
dopo aver visitato i porti più importanti del Brasile, dell’Argentina, delle
Antille, del Messico e degli Stati Uniti. Il cerchio si sarebbe chiuso
raggiungendo l’Italia attraverso lo stretto di Gibilterra: dalla documentazione
in nostro possesso (la raccolta dell’”Illustrazione” dal 14.1.1877 al 22.7
dello stesso anno), non risulta se il progetto sia stato portato a buon fine e,
in tal caso, in che tempi.
A bordo, un inviato
speciale dell’”Illustrazione” dal
nome strano , tal Patta d’Ancora (forse lo pseudonimo di chi voleva
dimostrare la propria competenza marinara? “patta” è la parte uncinata
dell’ancora destinata a tenerla ben salda sul fondale) cui spetterà il compito
d’inviare al giornale corrispondenze, fotografie e schizzi con informazioni e notizie poco note e talvolta bizzarre, che riferiremo
qui di seguito, del mondo di un secolo e mezzo fa.
Seguiremo qui la parte iniziale del lungo viaggio avvenuto
sulle orme di quello effettuato pochi anni prima, nel 1873, da un fedelissimo di Garibaldi, Nino Bixio il
quale - divenuto, dopo aver partecipato alle principali avventure garibaldine, deputato
e successivamente imprenditore come armatore navale - si era convinto, con una
geniale intuizione, che il futuro commerciale della marineria italiana non
fosse più sulle rotte inflazionate dell’Atlantico, ma, dopo l’apertura del Canale di Suez, su
quelle dell’Oriente. Seguendo questa idea aveva con il suo piroscafo
“Maddaloni” – il cui nome ricordava un borgo campano ove aveva strenuamente
combattuto durante la gloriosa battaglia del Volturno dando un fondamentale
contributo alla vittoria – toccato fra i primi italiani i porti dell’estremo
oriente concludendo poi in maniera drammatica, dopo un inizio promettente, la
sua avventura.
E vedremo come, per una fortuita coincidenza, il
“Cristoforo Colombo” incrocerà gli esiti drammatici del viaggio del generale garibaldino.
La partenza avviene, fra l’entusiasmo generale, da
Venezia, il 20 gennaio 1877, e il 2
febbraio la nave italiana inizia l’attraversamento del Canale di Suez. A
proposito di Porto Said, la città nata a seguito
dell’apertura del Canale avvenuta 16 anni prima e che già contava 13.000
abitanti, l’inviato speciale rileva, con rammarico, che “se la civiltà europea
comincia ad allignare nel quartiere musulmano , i nostri vizi, invece, vi hanno
già preso profonde radici”.
Il 22 febbraio si raggiunge il porto di Mascate,
capitale dell’Oman, accolti con tutti gli onori dal Sultano che invia a bordo,
come regalo di benvenuto, sei montoni e sei ceste di melograni mentre, prima
della partenza, farà omaggio di “due magnifiche piccole gazzelle”: per fortuna,
per evitare qualche imbarazzo agli italiani,
si astiene dal far loro dono di un leone simile a quello, magnifico,
che, in gabbia, presidiava la residenza del sultano.
Impressiona il giornalista la quantità di baracche
nelle quali si vendono commestibili “fra i quali primeggiano le locuste fritte.
Fa ribrezzo e nausea il vedere con quale
delicatezza e ghiottornia (sic) essi
prendono quell’insetto per le ali, ne
staccano con le mani le gambe posteriori
e quindi ne fanno un boccone solo
non gettando che le ali dopo aver ben guardato che ad esse non sia
attaccata la ben minima porzione di carne”: per il resto, dappertutto, miseria e
povertà impressionanti.
Finalmente si parte e il mattino del 28 febbraio la
“Cristoforo Colombo” giunge a Bombay nel cui porto incontra il piroscafo
“Australia” dell’ italiana Società
Rubattino di Genova “la prima in Italia (grazie all’intuizione del Bixio - ndr)
che osò avventurarsi nelle Indie e vi
fece conoscere la bandiera italiana….Ora la Rubattino…. è quella che dopo la
“Peninsular and Orietal Steam
Navigation” fa i migliori affari
commerciali”.
Il Patta
d’Ancora descrive le attività commerciali di una città destinata a superare in
Asia, per importanza, Singapore e Shangai
e riporta usi e costumi
dell’epoca che suscitano curiosità.
Vicino al quartiere indiano chiamato dagli inglesi
“Black-Town” (città nera), ad esempio, troviamo un vasto edificio destinato ad
ospitare gli animali malati suddivisi in vari recinti per i malati, i
convalescenti e quelli sani abbandonati,
chiara dimostrazione della bontà, della dolcezza
di sentimenti e della mitezza di indole degli
indiani.
In questo singolare ospedale vengono ospitati
animali di ogni genere, suddivisi in vari recinti destinati agli ammalati, ai
convalescenti ed a quelli sani abbandonati e qui raccolti.
I cimiteri? Inutili
A questo quadro di gentilezza e di buoni
sentimenti, fa riscontro la descrizione piuttosto cruda delle cerimonie funebri
di una delle minoranze esistenti a Bombay, i Parsi, discendenti dagli antichi
persiani, che “attivi ed onesti, hanno
tutte le virtù degli ebrei senza averne
i difetti”.
Anzitutto essi si preoccupano del comportamento tenuto
in vita dal defunto e per questo viene posto accanto ad esso un cane: se questo
fugge senza abbaiare, il defunto sarà onorato, ma se invece l’animale fugge
abbaiando, dimostrerà che egli è stato un peccatore: ma, sia in un
caso che nell’altro, le spoglie mortali non cessano di essere ritenute sacre.
Dopo di ciò la salma viene affidata ai
sacerdoti che la portano in una grande torre detta “la torre del silenzio”
popolata da migliaia di corvi ed avvoltoi che in meno di dieci minuti la
spolpano completamente, mentre le ossa sono gettate in un foro comunicante con
il mare ove i miseri resti scompaiono del tutto senza lasciare traccia alcuna.
Ad ingentilire questa cronaca piuttosto macabra, il
giornalista inserisce, per doverosa completezza, (e lo farà, lo vedremo, anche in altri casi),
un commento riguardante le donne delle varie etnie: le indiane “generalmente
belle, piuttosto piccole di statura ma di forme eleganti, hanno tutte
portamento nobile ed incedere maestoso”, mentre le musulmane “godono maggiore
libertà di quelle in Europa giacchè
vanno sempre sole per le strade ed a
testa scoperta; sono generalmente belle
ma non offrono troppe attrattive essendo poco pulite a differenza delle loro concittadine pagane le quali
spingono l’amore per la pulizia sino al punto di rimanere per delle ore
continue immerse nell’acqua”. Per finire, le ebree che “hanno carnagione
bianchissima però sono tutt’altro che belle”.
Un cenno anche per disilludere quanti sognavano, a
Bombay, piccanti visioni da mille e una
notte.
Il fortunato inviato speciale assiste ad un
“nautsh” (ballo delle bajadere) durante i festeggiamenti di un ricco matrimonio
ove delle giovani e belle fanciulle riccamente vestite “cantano con voce
monotona delle lunghe nenie e accompagnano il canto con dei graziosi movimenti
dei piedi e delle mani; talvolta appoggiano il tallone fortemente a terra
facendo risuonare tutti gli anelli che portano nelle dita, tal altra si
avanzano leggermente sulla punta dei piedi atteggiandosi in pose piene di
grazie. In tutto ciò nulla che offenda il pudore o che sorpassi i limiti della
decenza”.
Tracce di Inquisizione
Il viaggio prosegue e il pomeriggio del 10 marzo la
nave italiana giunge nel porto di Goa, 20.000 abitanti, capoluogo delle
possessioni portoghesi nell’India strappate agli inglesi. L’aspetto è squallido,
i segni della religiosità portoghese è attestata da una chiesa o da un’immagine
sacra che s’incontra ad ogni passo fra tanta povertà, ricordo, purtroppo, di
quella Inquisizione - importata dalla penisola iberica - che “vi regnò in tutto
il suo terrore fino al 1815, epoca in cui fu abolita”. Fra i portoghesi residenti, quasi tutti militari
o impiegati, singolare l’incontro “con un italiano, prestigiatore di
professione, il quale, dopo aver percorso l’India colla propria famiglia, era
venuto a passare qualche mese a Goa”.
Il 10 aprile la nave getta l’ancora nella bella
baia di Singapore ove già si trova la nave mercantile italiana “Principe Amedeo di Savoia” ed il giornalista
descrive le caratteristiche degli abitanti. In maggioranza sono malesi che
indossano una specie di gonnella ed una
piccola giacca, ed hanno lineamenti piuttosto brutti: in particolare, “il sesso
gentile, quantunque non si possa dire brutto, pure ha poche attrattive in causa
dell’odore ingrato di olio di cocco col quale si unge i capelli e la pelle”. Una colonia
florida e assai numerosa è costituita dai cinesi – “gente eminentemente
corrotta” secondo il Patta d’Ancora – 90.000 uomini e 20.000 donne che vestono
tutti alla stessa maniera, larghi calzoni ed una camiciola bianca oppure nera. “Gli
uomini sono assai brutti, ma ordinariamente di bella statura (evidentemente,
con il passar del tempo, si sono rimpiccioliti…n.d.r.) e ben fatti; le donne,
poi, sono addirittura dei piccoli mostri. I fanciulli, invece, e le fanciulle
al disotto dei 10 anni sono assai belli
e non sembrano punto figli di gente sì brutta”.
L’incontro con l’eroe
A questo punto il “Cristoforo Colombo” incrocia
quell’avvenimento storico che chiude la parte
iniziale del suo viaggio con un
singolare intreccio con un altro (rievocato
in questo “blog” con il titolo “Nino Bixio combattente sanguigno, politico
avveduto, impresario sfortunato”) compiuto alcuni anni prima, sulla stessa rotta,
dal generale garibaldino.
Abbiamo già sottolineato la sua idea geniale, che
volle egli stesso collaudare, di aprire
alla marineria italiana le rotte dell’estremo oriente dopo l’apertura del
Canale di Suez.
Con il suo moderno “Maddaloni”che suscita ovunque
ammirazione, un vascello misto, in grado di navigare sia a vela che a vapore,
giunge nell’estate del 1873 nel porto di Singapore, nelle Indie Olandesi, con un carico di carbone.
Mentre è alla ricerca di mercanzie per il viaggio
di ritorno, coglie al volo l‘occasione offertagli dal governatore olandese di
trasportare militari al nord dell’isola di Sumatra per domare una rivolta degli indigeni Atiek (i
quali, dopo una lunga guerra di
liberazione, daranno vita, nel 1959, alla nuova Repubblica d’Indonesia).
L’offerta prevede 7000 sterline a viaggio rinnovabile
mese per mese, una manna per Bixio che accetta di imbarcare un contingente di 1200 militari (pochi olandesi ed il resto mercenari europei e truppe indigene cinesi e malesi di infima
qualità) con armi, bagagli e cavalli al seguito.
Purtroppo l’affare si rivela assai magro perché sul
“Maddaloni”, divenuta una caserma galleggiante, regna il disordine ed il
sudiciume che alla fine provocano un’epidemia di colera che colpisce anche Bixio
prodigatosi nell’assistenza ai malati.
Muore il 16 dicembre 1873 all’età di soli 52 anni, ed
a quel punto s’ingaggia una controversia fra gli italiani che vorrebbero
imbalsamare il corpo del loro generale, e gli olandesi che invece, per evitare
l’ulteriore diffusione del morbo, vorrebbero distruggerlo. Alla fine, raggiunto
il compromesso, il cadavere è racchiuso in una cassa di ferro e sepolto
nell’isoletta di Pulo Tuan, ma gli Atiek, che hanno osservato, non visti, la
manovra, ritenendo trattarsi di chi sa quale tesoro, la dissotterrano, l’aprono e scoperto, atterriti
e schifati, il macabro contenuto, la riseppelliscono di corsa sotto poche
badilate di sabbia.
E allorchè nel marzo 1876 il cap.Brook del 2°
reggimento di fanteria olandese,
comandante del presidio militare ove si erano svolti i combattimenti, dopo
lunghe ricerche grazie alla confessione di un indigeno riuscì ad individuarla e
dissotterrarla di nuovo, non vi trovò che un mucchietto di ossa subito inviate al
suo comando nella capitale della colonia, Batavia (oggi Djacarta), sull’isola
di Giava.
Dopo circa due anni le autorità olandesi
approfittano della presenza della “Cristoforo Colombo” che si trova all’epoca,
come sopra detto, nella vicina Singapore, ed invitano il suo comandante a
raggiungere Batavia per la consegna dello storico reperto.
Da parte sua il giornalista coglie l’occasione per dare un’occhiata anche a questa città la
cui visita non era prevista dal programma della crocera.
L’impressione è positiva: la città nuova ha
abbandonato costruzioni vecchie e malsane e sono sorti molti edifici in
muratura il cui tetto è sostenuto “da grandi colonne che in taluni casi sono di
marmo…i pavimenti, poi, sono formati da grandi lastre di marmo disposti a
scacchiere”. Considerazione, questa, che conferma e avvalora le acute considerazioni
fatte a suo tempo dal Nino Bixio politico che, per avvalorare la sua tesi
sull’opportunità per la marineria italiana di affrontare le rotte aperte dal
taglio del canale di Suez aveva proprio citato il caso dei marmi italiani venduti
in America, e di lì rivenduti in estremo
oriente: tanto vale, affermava, portarveli direttamente evitando stupide e costose triangolazioni.
A Batavia esistevano il teatro, un famoso giardino
botanico, circoli di riunione, e comodi alberghi: a 50 chilometri dalla città,
sulle pendici di una delle montagne di cui Giava è ricca, in bella posizione panoramica, il “Belle Vue” di
proprietà di un italiano, tal Ferrari, “rinomato in tutta l’isola come il più
intrepido cacciatore di rinoceronti e di tigri le quali però non si incontrano che
raramente e nella parte meridionale di Giava”.
La popolazione è composta oltre che da pochi
europei, da malesi e cinesi che “non abborriscono
(sic) il governo olandese e quantunque in cuor loro forse non l’amino, pure non
cercano di liberarsene”. Merito degli olandesi, “gente amabilissima, simpatica
ed estremamente gentile…che non trattano gli indigeni con quella sprezzante
superiorità che usano gli inglesi verso i popoli a loro soggetti…”, per cui “in
Giava qualunque carriera è aperta ai malesi”.
E non manca
di rilevare, l’attento cronista, che “…in Batavia tutte le signore, comprese
quelle dell’alta società, non isdegnano (sic) nella mattina e nelle ore calde
del giorno il costume malese il quale
aggiunge loro bellezza, grazia e fascino”, perché “le donne sono generalmente
di una bellezza non comune, cosa che non si scorge troppo di frequente nelle
colonie inglesi”.
Le indigene malesi poi, sono carine ma, ahimè, “…hanno esse pure
poche attrattive in causa dell’ingrato odore dell’olio con il quale si ungono i
capelli”.
Quindi, da bordo della nave italiana, il Patta
d’Ancora descrive la cerimonia militare - che francamente stupisce per la sua
imponenza, classico omaggio del militarismo ottocentesco al coraggio ed alle
virtù guerresche dell’uomo, chiunque egli sia - della consegna del prezioso
reperto: ”…Erano a terra, a ricevere il Comandante ed altri ufficiali, un
battaglione di fanteria olandese, una brigata d’artiglieria ed uno squadrone di
cavalleria, il convoglio funebre era seguito
dal prefetto della provincia di Batavia il quale rappresentava il governatore generale dell’isola e da tutti
gli altri funzionari sia militari che civili; i cordoni poi del carro erano
tenuti da quattro colonnelli dell’esercito
olandese…Durante tutto il tempo della cerimonia funebre tutti i cannoni del
forte fecero salve mortuarie e tutti i
bastimenti che si trovavano in rada tennero la bandiera a mezz’asta in segno di
lutto… Il Prefetto lesse in francese
poche ma commoventi parole
rammentando la vita del generale…”.
La cassa contenente i miseri resti viene quindi
posta su di un sarcofago apparecchiato sul castello di poppa della “Cristoforo
Colombo” e trasportata a Singapore ove
viene consegnata al R.Console italiano della città che provvederà poi a farla
pervenire in patria a Genova ove avrà
solenni accoglienze e la definitiva sepoltura nel cimitero di Staglieno.
Si chiude così la parte iniziale del viaggio
intorno al mondo della “Cristoforo Colombo” e non è chi non veda il profondo
significato dell’incontro fra essa,
simbolo della nuova Italia, e colui che tanto si era profuso per farla nascere.
Giovanni Zannini