Vi è chi afferma che in un ideale ritratto dei fondatori dell’unità d’Italia, accanto ai baffoni di Vittorio Emanuele II, alla barbetta di Cavour, alla zazzera bionda di Garibaldi ed al profilo ascetico di Mazzini, andrebbe pure effigiato l’ovale perfetto della marchesina Virginicchia - detta Nicchia – Oldoini, poi Contessa di Castiglione per aver sposato il conte Francesco Verasis di Castiglione .
Ma non risulta che tale accostamento sia mai stato effettuato, ed anzi, a quanto si dice, non esiste in Italia città, paese o borgata che, nonostante i suoi innegabili meriti, le abbia dedicato uno straccio di monumento o, almeno, una via o una piazza.
Forse, perché vi è un qualche imbarazzo ad ammettere fra i fondatori dell’unità d’Italia una donna che, se eccelse per l’avvenenza e le sue innegabili capacità di ordire intrallazzi, non brillò per virtù.
Un personaggio follemente innamorato della sua bellezza che esibiva sfrontatamente, fiera degli ammiratori che si assiepavano attorno a lei quando, nei ricevimenti, faceva il suo ingresso procedendo quindi altera fra i commenti spesso malevoli delle donne, superba per l’ammirazione degli uomini che salivano talora sulle seggiole per meglio bearsi della sua vista.
Ma anche dotata di un’intelligenza e di una furbizia eccezionali che le consentirono, nonostante la giovanissima età – a soli 18 anni ebbe l’incarico di ambasciatrice ufficiosa del Piemonte presso la corte di Napoleone III – di tessere rapporti ed ordire intrighi politici, primo fra tutti quello di “orientare politicamente” l’Imperatore verso l’Italia, per contrastare il pensiero dell’imperatrice Eugenia de Montiijo, (spagnola, assai pia, e favorevole, quindi, alla cattolicissima Austria) alla quale neppure il fascinoso ambasciatore Costantino Nigra, inviato da Cavour a Parigi con l’incarico di “orientare” pure lei, riuscì a far mutar parere.
La missione affidata da Cavour alla contessa - della quale era cugino, e della quale, si dice, abbia anche goduto qualche favore , così come del resto lo stesso Vittorio Emanuele II - era stato quello di influire sull’animo di Napoleone III per condurlo, senza che se ne accorgesse, dalla parte del Piemonte, ed essa aveva seguito per filo e per segno le istruzioni ricevute.
“Réussissez, ma cousine, par les moyens qu’il vous plairà, mais reussissez!” (“dovrete riuscire nel vostro intento con ogni mezzo che voi riterrete più opportuno”). “Non abbiate scrupoli”, l’aveva incitata il machiavellico cugino, e lei aveva condotto in porto, con successo, la missione.
E così, poco dopo il fatidico incontro - ai primi del 1856 - della Contessa con l’Imperatore, il Piemonte, che aveva partecipato alla guerra di Crimea assieme a Turchia, Francia ed Inghilterra contro la Russia, viene chiamato, l’8 aprile di quello stesso anno, a partecipare al Congresso di Parigi che pone fine al conflitto e getta le basi per una pace duratura. In tale sede,viene agitata per la prima volta in un’assemblea di grandi potenze, da Cavour, dal francese conte Walewski e, soprattutto, dall’inglese Lord Clarendon, la questione italiana (con particolare riferimento ai governi di Ferdinando II a Napoli e del Papa a Roma) della quale si auspica la soluzione ad evitare che essa possa costituire in futuro un pericolo per la pace in Europa.
Ed è la scaltra ventenne italiana a favorire in Cavour e nell’Imperatore la voglia della cura delle acque che li conduce nel luglio 1858 alla famosa stazione termale di Plombiéres, nei monti Vosgi, ove i due consacrano l’alleanza tra Francia e Piemonte qualora quest’ultimo fosse attaccato dall’Austria.
La guerra del 1859 che vede Piemonte e Francia alleate contro l’Austria, costituisce l’acme dei successi politico-sentimentali della Contessa di Castiglione, ma anche l’inizio della fine della sua meteora.
L’armistizio che i due imperatori, Napoleone III di Francia e Francesco Giuseppe d’Austria, impressionati dal massacro della battaglia di Solferino e S.Martino, stipulano nel luglio di quell’anno, suscita l’ira furibonda della Contessa che rimprovera a Napoleone di aver tradito le promesse d’alcova secondo le quali la guerra avrebbe dovuto portare alla liberazione non solo della Lombardia, ma anche del Veneto.
Ed è questa sua aperta protesta ad esserle fatale perché consente alla sua nemica di sempre, l’Imperatrice Eugenia, di formulare a suo carico l’accusa di aver organizzato un attentato contro Napoleone mancatore di parola.
Così, poco dopo l’armistizio di Villafranca del luglio 1859 avvenne a Parigi, nella casa della contessa, in Rue Montaigne un (presunto) attentato contro l’Imperatore sventato dalla prontezza della sua guardia del corpo che mise fuori uso con una precisa pugnalata un individuo che era sbucato minaccioso, all’improvviso, nell’appartamento ove Napoleone si era recato a “far visita” alla Contessa.
Si volle allora far credere che il fatto fosse conseguenza del rancore della contessa contro l’amante fedifrago, ed al termine di un drammatico interrogatorio nella sede della polizia francese la Contessa di Castiglione, scortata dal generale Fleury fu accompagnata alla frontiera italiana ed espulsa.
In realtà si era trattato proprio di una messinscena organizzata dall’imperatrice Eugenia, per convincere il marito a disfarsi dell’odiata concorrente: e se il presunto attentatore (che poi si accertò essere un poliziotto), ci rimise, poveretto lui, la pelle, fu perché la guardia del corpo, per un disguido, non era stata avvertita che si trattava di una finta e che l’intruso non doveva essere ammazzato, ma solo bloccato senza colpo ferire.
Ciò non esclude che la bellissima contessa avesse un certo caratterino se è vero che, come scrive in una lettera, non avrebbe esitato a “bruler la cervelle dell’espagnole” - l’odiata Imperatrice - per punirla della trama ordita contro di lei: ma il fido Costantino Nigra l’aveva dissuasa per evitare ulteriori complicazioni alla politica estera del Piemonte già in precedenza messa in pericolo, nel 1858, dall’attentato di Felice Orsini contro Napoleone.
Ci si chiede quali fossero i sentimenti della donna verso l’augusto amante imperiale.
Nella loro biografia “Virginia di Castiglione – La contessa della leggenda” dalla quale sono state assunte alcune notizie qui riportate, gli autori E.Henrisch e C.Nigro forniscono una versione assai nobile affermando che la Contessa “ha fatto sacrificio all’Imperatore della sua bellezza” e che “ha dato tutta se stessa - novella Giuditta – alla causa della patria”, dicendosi convinti che “in lei l’amore per la patria gridasse più forte dell’amore per l’uomo”.
Sia consentito osservare che non deve esser stato gran sacrificio condividere il talamo con l’Imperatore dei francesi, e che ciò deve averle arrecato anche una certa qual soddisfazione se è vero che avrebbe voluto esser deposta nella bara (ma ciò non avvenne) con la camicia da notte indossata nella prima notte d’amore con Napoleone a Compiégne.
Fu, quindi, più probabilmente, un mix di passione amorosa e di intrigo politico che non deve esserle dispiaciuto affatto perchè le consentì di unire l’utile (la missione patriottica affidatale dal Cavour) al dilettevole (la passione di un amante come Napoleone III ed il nutrito appannaggio dedicatole finchè fu la sua favorita, oltre a gioielli e monili in quantità).
Del resto, una volta conclusa, e con successo, la breve fase, diciamo così, eroica del suo rapporto con l’Imperatore, la donna continuò ad occuparsi di intrallazzi politici senza trascurare, contemporaneamente, le avventure galanti collezionando, dicono, una quarantina e più di amanti da molti dei quali trasse benefici economici così vistosi da meritarsi (e lo riferiamo con un certo imbarazzo) il nomignolo di “vulva d’oro del Risorgimento italiano”, nonché, al giorno d’oggi, quello di progenitrice delle “escort” d’alta, per non dire altissima, classe, animatrice indiscussa dei “gossip” dell’epoca, con punte di sorprendente volgarità .
Anche se il condizionale , su simili argomenti, è d’obbligo ed è difficile distinguere il vero dalla leggenda.
Sta di fatto che a 62 anni, sola e abbandonata da tutti, finì tristemente i suoi giorni in una casa ove aveva eliminato gli specchi che riflettevano il suo fatale decadere: conferma, ancora una volta, del dramma della caducità inarrestabile della bellezza .
In conclusione, se la paternità dell’unità d’Italia va tranquillamente attribuita a Vittorio Emanuele, Cavour, Garibaldi e Mazzini – anche se, diciamolo, i primi due che, dopo averne assaporato i favori, gettarono la Virginicchia nelle braccia di Napoleone, non ci fanno una gran bella figura -, sull’eventualità di attribuirne la maternità alla Contessa di Castiglione sarebbe il caso di essere molto, ma molto più prudenti, e, forse, anche, di stenderci sopra un velo pietoso.
Anche per evitare di ricordare ai francesi che le migliaia di loro concittadini periti nel massacro di S.Martino e Solferino furono l’omaggio che Napoleone III fece ai begli occhi, ed al resto, di quella meravigliosa “statua di carne” – così la definì la principessa Paolina di Metternich – che fu la Contessa di Castiglione.
Giovanni Zannini